Transessualità nello sport


DAL VOSTRO POLITICAMENTE SCORRETTO VICINO DI RETE

Una questione molto dibattuta è se le donne trans debbano o meno gareggiare nelle competizioni femminili. Si tratta veramente solo di una questione di genere o vanno fatte anche altre considerazioni? Non sono trans ma sono un’atleta e ho partecipato a moltissime gare in varie discipline, quindi vi dico come la penso.

Consideriamo alcuni fatti:

  1. anche a distanza di tempo dopo la transizione, le donne trans hanno caratteristiche fisiche che le avvantaggiano rispetto alle concorrenti cis, a parità di allenamento e capacità personali;
  2. sono rarissimi gli uomini trans che competono in gare maschili e che primeggiano, mentre viceversa sono molte le donne trans che, partecipando a gare femminili, ottengono risultati di prim’ordine.

Questi due fatti possono essere facilmente verificati. Se ne deduce che nel caso di donne trans, c’è un vantaggio oggettivo nel competere in gare femminili.

Come comportarsi allora per mantenere il giusto equilibrio nelle competizioni e allo stesso tempo non discriminare le donne trans rispetto a quelle cis?

Nel mondo dello sport esiste già un criterio universalmente adottato che si preoccupa di mantenere il giusto equilibrio nelle competizioni, ed è quello delle categorie. Ad esempio, negli sport di combattimento, sarebbe impensabile far combattere un atleta che pesa 60 chili con uno che ne pesa 90. Il primo sarebbe, a parità di capacità e allenamento, pesantemente penalizzato. Per cui esistono le categorie di peso, sia maschili che femminili. Stesso discorso, infatti, nel pensare di far combattere una pugile donna di 70 chili con un pugile uomo di 70 chili: sarebbe comunque svantaggiata a causa di una serie di fattori fisiologici, cosa che può spiegare senza problemi qualsiasi medico dello sport.

Quindi si creano categorie separate. Stesso discorso per le disabilità: chi corre i 100 metri ed è amputato, non gareggia con persone normodotate. Non solo: le varie gare paralimpiche sono divise per tipologia di disabilità. Ad esempio, per gli amputati agli arti inferiori ci sono tre categorie — 42, 43 e 44 — che si differenziano per tipologia di amputazione.

Un altro esempio sono le competizioni junior e senior, ovvero anche l’età, in alcuni sport, prevede categorie diverse a seconda dell’età. Pensare di far gareggiare un sedicenne con un sessantenne in un singolo di tennis o in una gara di nuoto avrebbe poco senso, no? Non che non si possa fare, ma non sarebbe una gara equilibrata, per quanto esperto sia l’atleta più anziano. E comunque, nello sport, si definiscono le categorie partendo dal presupposto che gli atleti abbiano la stessa preparazione ed esperienza di base, per cui si usano per riequilibrare fattori sui quali non si può intervenire.

Perché non applicarlo quindi anche al genere? Possiamo dire di avere quattro generi fisiologicamente diversi — esistono altri generi ma non dovrebbero avere una correlazione con le capacità fisiche — uomini e donne cis e uomini e donne trans. Possiamo pensare quindi a quattro categorie. Non è discriminazione più di quanto non lo sia mantenere separate le gare delle categorie paralimpiche 54 e 56, oppure dei pesi welter e di quelli massimi.

Tenete presenti che là dove la differenza fisica non ha un impatto sulla gara, quelle che sono le categorie “tradizionali”, ovvero “maschile” e “femminile”, in alcuni sport si uniscono. Ad esempio, nella Formula 1 il genere del pilota non conta. Stessa cosa nell’equitazione. Tecnicamente anche altri sport che hanno competizioni maschili e femminili un giorno potrebbero unificare le gare. Ad esempio tiro con l’arco, vela o windsurf.

E se una donna trans volesse comunque confrontarsi con donne cis? Anche in questo caso la soluzione c’è già nello sport e si chiama competizioni open, ovvero aperte. Esiste già, ad esempio, nella scherma storica, dove uomini e donne combattono nello stesso torneo open indipendentemente dal genere.

Per concludere, i principi che già si applicano nello sport possono dare una risposta equa ed equilibrata alla questione posta all’inizio. Basta farne una questione pratica, basata su considerazioni oggettive, e non ideologica.


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