Poche donne al potere


Ho visto stasera un servizio al telegiornale che evidenziava come ci fossero ancora troppe poche donne nei posti di potere, non solo nel mondo della politica, ma anche in quello imprenditoriale e accademico.

Verissimo. Le cifre parlano da sole. In Italia, le percentuali di donne nel mondo della politica sono disarmanti: 15% negli organi nazionali dei partiti, 11,5% le deputate, 8,1% le senatrici, ancora 11,5% le italiane nel Parlamento Europeo, 10% i ministri e le sottosegretarie, 9% le donne nelle commissioni parlamentari, quasi sempre in aree che si occupano di materie tradizionalmente considerate di appannaggio femminile: istruzione, politiche sociali, pari opportunità e ricerca.

Nelle Regioni poi le cose non vanno meglio: 10,8% nelle giunte e nei consigli, con ben otto giunte regionali senza neanche una donna. Anche nei sindacati e nelle associazioni di categoria, che pur dovrebbero dimostrare maggiore attenzione, abbiamo cifre assolutamente ridicole. Negli organismi direttivi di CISL, UIL e UGL le donne rappresentano solo il 10%, mentre nella CGIL abbiamo un più ragionevole 37,7%. Nelle grandi associazioni di categoria, tuttavia, la situazione ritorna pesante: solo il 3,33% nella Confcommercio, il 4,12% nella Confcooperative, il 4,17% nella Confservizi, il 5,26% nella Coldiretti, il 8,33% nella Confapi, il 12,28% nella Cna, il 16,67% nella Confindustria, e per giunta solo a livello locale: a livello nazionale, infatti, sono praticamente del tutto assenti.

Una situazione analoga, anche se più equilibrata, si ritrova anche nel mondo imprenditoriale. Nel sistema bancario le donne con una qualifica di quadro sono solo il 21,7% e un mero 4,1% le dirigenti. Anche negli organismi direttivi accademici e universitari le donne sono praticamente assenti. Con la riduzione degli Istituti di Ricerca da 300 a 101, le donne dirigenti sono passate dal 5% a solo il 2%. La situazione migliora un po’ nelle aziende ma anche lì, cambia considerevolmente da azienda ad azienda. Ad esempio, in Puglia ci sono solo 51 donne dirigenti fra tutte le aziende della regione, una percentuale veramente insignificante, mentre in IBM Italia hanno superato il 14%.

Ma perché tutto questo? Colpa della discriminazione da parte degli uomini? Colpa delle leggi? Forse, eppure c’è qualcosa che non torna. Ad esempio, in Italia le elettrici sono persino di più degli elettori e le liste elettorali contengono un numero non indifferente di donne, anche se non posizionate in cima alla lista. Se le donne votassero solo donne, le percentuali sarebbero ben differenti. D’altra parte votare qualcuno solo in base al genere non è che sia il miglior criterio possibile nella scelta di un candidato ed evidentemente l’elettorato lo capisce e sceglie in base ad altre considerazioni. E allora? Resta lo scarso numero di donne nei posti di potere, numero che non può certo imputarsi a minori capacità e determinazione da parte delle donne nei confronti degli uomini.

Sicuramente un fattore importante è la famiglia, che pesa in Italia ancora prevalentemente sulle donne, anche se lavorano, piuttosto che sugli uomini. Ma allora perché là dove gli uomini rivendicano un ruolo più attivo, una maggiore condivisione di oneri e responsabilità nella famiglia, come nel caso dei papà separati, sono proprio avvocate e deputate ad opporsi? E comunque le basse percentuali riguardano anche le donne single, quelle con i figli già grandi o comunque abbastanza agiate da potersi avvalere di governanti e badanti.

Forse c’è un altro fattore che viene sottovalutato, un fattore che, per assurdo, non ha nulla a che vedere con il genere.

Se andassimo a studiare la situazione più in profondità ci accorgeremmo che ci sono tanti uomini intelligenti, capaci, volenterosi, sicuramente più che adatti a diventare deputati, senatori, ministri, rettori, sottosegretari, dirigenti e presidenti, che invece non lo sono. Perché? Il fatto è che per raggiungere posizioni di potere in Italia non serve essere in gamba, non serve meritarselo. A occupare quei posti ci vanno quelli che hanno le conoscenze giuste, che sono disponibili a dar via parti più o meno intime — maschili o femminili poco importa — pur di raggiungere determinate posizioni, che sono disposti a fare e dire qualunque cosa, che non hanno remore a colpire gli altri alle spalle. Queste persone, a loro volta, privilegiano persone come loro, in una catena clientelare che è fatta prevalentemente di do ut des. In questo sistema tutto è permesso pur di guadagnare il potere, ogni forma di attacco, di discriminazione, di calunnia è buona pur di far fuori gli avversari. E allora il maschilismo è solo una delle tante armi. Non sei discriminato solo se sei una donna, ma se sei omosessuale, se porti l’orecchino o hai il codino, se non ti uniformi a determinati criteri nel vestire, nel parlare, nell’agire. Puoi anche essere un genio, una persona eccezionale, se non corrispondi a certi modelli, semplicemente sei fuori.

Se in questa società, ad occupare certi posti, ci fossero viceversa le persone più meritevoli, quelle che veramente vedono certe posizioni come un’opportunità di aiutare gli altri piuttosto che se stessi, quelli che hanno idee e sanno come realizzarle, quelli che hanno competenza e conoscenze senza per questo diventare arroganti e presuntuosi, quelli che il posto se lo sanno guadagnare con il coraggio, l’onestà, la dedizione, la competenza, la determinazione; se in definitiva al potere ci andasse chi se lo merita, non ci sarebbe alcun dubbio che ad assumere certi incarichi ci sarebbero in media tanti uomini quante donne.

Allora sì che avremmo un Paese più civile. Non certo aumentando artificiosamente il numero delle donne ai posti di potere mandandoci persone altrettanto incapaci, subdole, meschine, incompetenti e senza scupoli delle loro attuali controparti maschili. Già, perché purtroppo, anche di quelle ce ne sono altrettante quanti di uomini: la parità non è solo delle virtù, ma anche dei difetti. No, non integrando anche le donne in quel meccanismo perverso che ha creato in Italia una classe dirigenziale avida e meschina, quasi analfabeta da un punto di vista culturale, senza coraggio, senza capacità di innovare, senza attitudine al rischio, senza senso civico e senso del dovere, ma dando piuttosto ad ognuno il posto che effettivamente merita, senza guardare a quale genere, etnia, orientamento sessuale, credo o modus vivendi appartenga, ma solo in base a quello che sa fare, a quello che in grado di dare agli altri: alla sua famiglia, alla sua città, alla sua azienda, al suo Paese. Tanto basterebbe.


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