La sindrome della bandiera


Il dibattito che si è acceso sulla questione “stupri”, mi dà lo spunto per parlare di un’altra cosa.

Nello specifico mi riferisco al voler contrapporre il diritto alla sicurezza con l’invito alla prudenza. In questo giorni si sono formati due partiti, se così li vogliamo chiamare: quello del “sta alle ragazze fare attenzione” e quello del “bisogna insegnare ai ragazzi a rispettare le ragazze”. Già detto così, una domanda sorge spontanea: ma perché dovrebbero essere raccomandazioni alternative? Perché non entrambe le cose?

Generalizziamo ora, ovvero, dal caso specifico spostiamoci su una visione un po’ più ampia della questione.

Nel nostro Paese, e non solo, sta diventando sempre più frequente un determinato atteggiamento nei confronti dei vari problemi che caratterizzano la nostra società. Quello di mettere in contrapposizione considerazioni e proposte che non solo non sono affatto antitetiche ma che spesso sono addirittura complementari. Ma perché succede?

È quella che io chiamo la “sindrome della bandiera”, ovvero il bisogno di etichettare ogni cosa e metterla nella nostra sfera di influenza o in quella del nostro avversario; in genere quello politico, ma non solo. La meritocrazia è di destra, la solidarietà è di sinistra. Vero? Chiaramente no. Sono entrambi valori e sono entrambi di tutti, ma ogni parte si appropria dell’una o dell’altra e questo ha una devastante conseguenza: non si può averle entrambe, perché o stai da una parte o stai dall’altra, e se cerchi di spiegare che a te sembra che entrambe le posizioni siano valide ma limitative, ti si accusa di non prendere posizione.

Che gli effetti di questo modo di ragionare siano devastanti per il nostro Paese lo vediamo poi in Parlamento, dove questo contrapporre idee e proposte che potrebbero benissimo coesistere se non essere addirittura sinergiche, porta ai cosiddetti “veti incrociati”, ovvero, ognuno blocca quelle dell’altro e alla fine non si fa nulla o, peggio ancora, si prendono provvedimenti che sono solo di facciata e non di sostanza.

Ma il problema, la vera gravità, sta nel fatto che questo modo di fare non è esclusiva dei partiti o dei politici. Basta leggere gli articoli e i commenti su una rete sociale per rendersene conto. Ogni argomento, ogni cosa che accade, divide le opinioni in due blocchi che iniziano subito ad accusarsi a vicenda, spesso neppure argomentando le due posizioni, ma con attacchi di natura personale e solitamente offensivi. «Sei uno stupido», «sei un idiota», «sei un fascista», «sei un comunista», sei… sei… sei. Etichette. Viviamo di etichette. Da appiccicare addosso alle persone, in cui inscatolare le opinioni, con le quali giudicare i fatti.

Le etichette sono categorie e le categorie esistono per un buon motivo: semplificano la vita. Di per sé non è sbagliato usarle. Solo che rappresentano una sintesi e ogni sintesi, in quanto tale, fa perdere informazione. Semplificare è utile, purché poi, quando si ragiona, non lo si faccia sulla semplificazione ma sulla questione declinata in ogni suo aspetto, altrimenti come semplice è la categoria, semplice e, spesso, superficiale, ne risulta la conclusione.

Quindi, quando vi trovate di fronte a un dibattito anche acceso fra due posizioni, vi do un suggerimento. Non domandatevi chi abbia torto e chi ragione ma, prima di tutto: Quello che stanno dicendo è davvero alternativo? Poi, eventualmente: Non è che entrambe le posizioni sono giuste o entrambe sbagliate? E infine: Ma non è che ne esiste una terza di cui nessuno sta parlando? Provate a rispondere a tutte e tre queste domande e inizierete a vedere ogni cosa in modo diverso.


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