Voto o giudizio?


Periodicamente si ripresenta all’attenzione dell’opinione pubblica l’annosa discussione di come debba essere dato un giudizio in ambito scolastico.

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Una volta c’erano i classici voti da «0» a «10», anche se poi la maggior parte degli insegnanti si limitava a utilizzare l’intervallo da «4» a «9»; quindi sono stati proposti i giudizi come «ottimo», «buono» oppure «insufficiente», ma alla fine sono diventati una sorta di alter ego dei voti tradizionali, tanto che non è raro vedere ancora oggi un «ottimo meno» o un «buono più più»; adesso si parla di valutazione più strutturate, di giudizi estesi, ad personam.

In effetti, come valutare un determinato risultato non è un discorso semplice. Innanzi tutto bisogna comprendere cosa si sta cercando di valutare. Possiamo dare una valutazione della conoscenza di una certa materia da parte di uno studente, ma possiamo anche voler andare oltre e verificarne il livello di comprensione, la capacità di analisi, di sintesi o di valutazione così come, per certe materie, l’applicazione di quanto appreso.

Ne consegue che la valutazione dipende anche dal tipo di verifica che si sta eseguendo. Una semplice lista di domande alle quali rispondere scegliendo fra tre possibili risposte permette di effettuare un tipo di valutazione molto differente da quella che si può fare, ad esempio, tramite un’interrogazione orale su un determinato argomento. Di conseguenza anche il tipo di valutazione non potrà che essere differente e il voto o giudizio finale dovrà rispecchiare queste differenze.

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Inoltre c’è il fattore ambientale, ovvero se il voto debba rappresentare una valutazione assoluta del livello specifico raggiunto dallo studente a fronte di una scala prefissata — comunque legata a fattori culturali locali e contingenti — o piuttosto rapportarsi con quelle relative al resto della classe e magari alle altre sezioni che abbiano lo stesso o altro insegnante nella stessa materia.

Come si può vedere quindi, come venga rappresentato il giudizio finale o voto, che dir si voglia, è decisamente secondario a come a tale giudizio si debba arrivare e quale sia poi il suo vero significato. Di tutto ciò si può discutere ampiamente e in effetti, fra gli addetti ai lavori, lo si fa.

Buono

Dove invece non si è fatto molto è stato sul piano del rapporto fra studente e giudizio, soprattutto nell’ambito della famiglia ancor prima che della scuola. Il voto, la verifica, vengono ancora visti da molti studenti come una specie di condanna o assoluzione da parte del corpo docente, condanna o assoluzione che spesso si ripercuote nell’ambito familiare. Questo approccio al giudizio è assolutamente deleterio.

È importante che si educhino gli studenti e soprattutto i loro genitori a vedere nel voto un semplice strumento ad uso e consumo principalmente dello stesso studente. Il voto ha due obiettivi — in realtà sono molti di più, ma di quello parleremo dopo — per uno studente: innanzi tutto imparare a confrontarsi psicologicamente con un giudizio esterno, in secondo luogo utilizzare questo giudizio come uno strumento di autovalutazione.

Ottimo

Il primo aspetto è spesso sottovalutato ma è fondamentale: durante tutta la nostra vita noi saremo continuamente giudicati da noi stessi e dagli altri. Questi giudizi avranno comunque un effetto sulla nostra esistenza, qualunque sia il nostro atteggiamento nei loro confronti, incluso quello di volerli ignorare. È quindi importante che gli uomini e le donne di domani imparino fin d’ora a subire il giudizio non sempre positivo, non sempre corretto, non sempre in buona fede, del mondo esterno. Il voto scolastico è quindi istruttivo persino quando è ingiusto, perché nella vita saremo spesso sottoposti a vari livelli di ingiustizia e solo riconoscendoli e affrontandoli potremo in qualche modo superarli e andare avanti.

Il secondo aspetto è altrettanto importante, sebbene maggiormente riconosciuto: avere un giudizio esterno è uno strumento insostituibile per poter valutare il proprio livello di apprendimento e di preparazione e quindi decidere se e come migliorarlo. Il fallimento di molti studenti nel passaggio dalla scuola superiore all’università nasce spesso proprio dal mancato apprendimento di questa disciplina. Fino all’università c’è qualcun altro che ci definisce gli obiettivi, ovvero che ci dà i compiti, che ci verifica e ci valuta, ovvero ci interroga oppure ci dà un compito in classe, che esprime un giudizio, ovvero ci dà un voto. Ma all’università non è così. Siamo noi che dobbiamo decidere la facoltà; che scelta la facoltà dobbiamo costruirci un piano di studi; che fatto il piano di studi dobbiamo organizzarci in modo da arrivare all’esame preparati. Fino a quel momento, cioè finché non arriva l’esame finale, non abbiamo nessuno che ci possa aiutare a capire quale livello di preparazione abbiamo raggiunto. I compiti, le verifiche, le valutazioni, sono tutti modelli che devono aiutarci a formare un nostro metodo di studio, un nostro metodo di autovalutazione.

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Perché ciò avvenga è importante che la valutazione non diventi un’ossessione, che un brutto voto non scateni traumi in famiglia. Dobbiamo insegnare ai nostri figli che sbagliare è normale, che non si può sempre essere all’altezza in ogni situazione, che avere dei limiti è fisiologico. Cercare di migliorarsi è importante, cercare di superare i propri limiti è cosa buona e giusta, ma se si fallisce, non vuol dire che siamo noi il fallimento. Noi non siamo i nostri voti, ma è pur vero che i voti che ci vengono dati ci aiutano ad avere una migliore comprensione di noi stessi e del rapporto con gli altri. Un brutto voto giusto ci insegna dove siamo carenti, uno ingiusto può farci sospettare l’esistenza di un pregiudizio o anche un semplice problema relazionale con chi ci ha giudicato. Analogamente, un bel voto ci dà quella motivazione, quella soddisfazione personale che è importante per sostenere il nostro amor proprio, mentre uno oggettivamente eccessivo ci può far sospettare un secondo fine, attirare la nostra attenzione sulle motivazioni di un giudizio troppo positivo. In ogni caso è una lezione di vita.

Questo per quanto riguarda studenti e genitori. Tuttavia i voti servono anche agli insegnanti. Oltre ad aiutare un insegnante a capire quali studenti sono in difficoltà e quali sono queste difficoltà, e quindi intervenire per sostenerli, i vari voti nel loro complesso rappresentano anche una sorta di autovalutazione dell’insegnante stesso e della sua capacità di insegnare o della qualità del piano di studi. Ad esempio, se l’intera classe è molto debole su un certo punto, è molto probabile che la responsabilità sia dell’insegnante che non ha saputo chiarire quel determinato aspetto. Forse è un limite dell’insegnante, forse c’è un problema culturale, ma resta il fatto che i risultati nel loro complesso indicano che è necessario un qualche intervento correttivo. Ecco allora che il voto diventa uno strumento anche per chi insegna, al punto che in situazioni estreme può rendersi necessario rivedere la propria linea didattica.

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Per concludere vorrei solo fare una breve riflessione: a volte si legge sui giornali che un ragazzo o una ragazza si sono uccisi per aver ricevuto un brutto voto. In genere una situazione di questo tipo si ingenera quando gli aspetti riportati in precedenza non sono chiari allo studente, agli insegnanti o alla famiglia, tuttavia è ben difficile che il solo brutto voto, o anche una sequenza di brutti voti, porti una persona al suicidio. È evidente che ci deve essere un malessere più diffuso, un malessere del quale il brutto voto finisce per essere il simbolo. Un senso di inadeguatezza, il sentirsi in qualche modi messi da parte, il non trovare comprensione presso chi dovrebbe rappresentare un punto di riferimento — i genitori innanzi tutto, gli insegnanti poi — è spesso la vera causa di queste tragedie. In pratica spesso è nella famiglia e a volte nella scuola che dobbiamo cercare le cause di questi atti drammatici.

Come genitori, non cerchiamo di portare i nostri figli ad essere quello che non sono o peggio ancora quello che noi siamo o che avremmo voluto essere; come insegnanti, impariamo a rapportarci con i nostri studenti con reciproco rispetto e comprensione, anche quando la differenza di età è notevole. I ruoli sono diversi, ma dietro ai ruoli, da entrambe le parti, ci sono comunque individui che possono sbagliare, farsi trascinare dalle emozioni e dai sentimenti, avere comportamenti irrazionali, avere problemi personali o familiari. Impariamo ad accettare tutto ciò per accettare più facilmente gli altri, proviamo a superarli assieme, senza criminalizzare nessuno, nè studenti, né genitori, né insegnanti. Solo così potremo creare una scuola migliore: non con le leggi, non cambiando meccanismi di valutazione o tipi di verifica, ma attraverso la consapevolezza che la scuola è il primo passo nella vita di un cittadino e come tale deve prepararlo ad essa fornendo innanzitutto contenuti validi e solo in secondo luogo occupandosi della forma. Otto, ottimo, bravo, sono solo numeri e parole, è solo sintassi. La soluzione è nella semantica, nel loro significato e nel loro valore per la nostra vita di individui adulti, maturi, consapevoli e — non dimentichiamoci comunque l’obiettivo primario — culturalmente preparati.


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