Dovere di cronaca


La recente pubblicazione su alcuni blog e su vari social network di alcune immagini molto crude che mostrano morti e feriti in seguito alla repressione delle manifestazioni tuttora in corso in Iran ha riaperto un dibattito che si ripropone puntualmente in questi casi: «È giusto o no mostrare queste immagini? Si tratta davvero di informazione oppure è solo un voler trasformare in uno spettacolo le vicende di cronaca?»

Coloro che ritengono tali pubblicazioni inopportune, se non addirittura dannose, affermano ciò principalmente in base a due considerazioni: la prima è che tali immagini ledono la dignità delle vittime, dato che spesso le espongono pubblicamente in pose e situazioni umilianti o comunque che possono essere considerate imbarazzanti per loro o per i loro familiari e amici; la seconda è che, non esistendo di fatto alcun filtro in molti dei siti sui quali tali immagini sono pubblicate, esse possono ferire la sensibilità di eventuali visitatori impreparati, soprattutto se minori.

Entrambe le affermazioni hanno la loro logica e, se vogliamo, possiamo tranquillamente affermare che sono sostanzialmente vere. In effetti questo genere di immagini tende a essere molto crudo, specialmente per chi vive in Paesi ricchi e industrializzati e che quindi raramente si trova a contatto con quel genere di violenza. Certo le stesse immagini non avrebbero la stessa valenza per chi violenze del genere le vede tutti i giorni, il che vuol dire una parte non indifferente della popolazione del pianeta. Sono centinaia infatti i conflitti nel mondo, così come sono centinaia le aree del mondo in cui la criminalità, il terrorismo, la guerriglia, le bande armate di ispirazione politica o religiosa, massacrano senza pietà uomini, donne e bambini. Questi milioni di persone, forse decine di milioni, forse anche centinaia di milioni, non si impressionerebbero certo per una foto, dato che nella loro vita hanno visto, se non passato, anche di peggio.

Naturalmente è pur vero che tali immagini possono essere lesive della dignità umana. I corpi martoriati, mutilati, torturati, sono spesso nudi o parzialmente nudi, le membra contorte, le espressioni deformate dalla sofferenza. Chi vorrebbe ricordare i propri cari in quel modo? Chi vorrebbe che fossero esposti alla pubblica vista in quelle condizioni? Una società come la nostra, dove si spendono milioni di euro all’anno per rifare il trucco ai cadaveri, così che appaiano di bell’aspetto e sereni nella camera ardente, non può accettare che la morte sia rappresentata da tanto squallido realismo, dove il sangue, le feci e l’urina imbrattano i corpi di uomini, donne e bambini. E quindi è assolutamente vero: in una società dove persino il dolore e la morte devono essere ripuliti dalla sozzura e dai segni della violenza, foto come quelle ledono la dignità dei morti e turbano la sensibilità dei vivi.

Ma adesso andiamo un po’ più in profondità, perché quelle foto non sono immagini di un incidente o di un evento fortuito o sporadico, ma la rappresentazione di situazioni di profondo conflitto che spesso perdurano da anni, se non decenni, dove essere umani soffrono e muoiono lottando contro la fame, la disperazione, regimi dittatoriali, signori della guerra, banditi, pirati e criminali di ogni genere. Sono la rappresentazione di realtà che non vanno e non possono essere ignorate, realtà che andrebbero non solo affrontate ma che dovrebbero diventare un problema per ogni essere umano veramente civile, né più né meno come dovrebbe essere preoccupazione comune la salvaguardia dell’ambiente o il riscaldamento globale; anzi, molto ma molto di più, perché in gioco ci sono esseri umani. Eppure non è così: spesso i governi dei Paesi più ricchi tendono a ignorare queste questioni, al massimo a esprimere blande dichiarazioni di condanna più o meno stemperate a seconda di quanto importante sul piano internazionale siano i Paesi coinvolti. Il motivo è semplice: una condanna aperta, magari delle sanzioni o comunque delle azioni a livello internazionale, potrebbero essere viste dai Paesi nei quali tali violenze avvengono come un’ingerenza nei loro affari interni, e dato che ogni Paese, anche quelli più civili, ha i suoi scheletri negli armadi, si sta molto attenti a non creare precedenti imbarazzanti che potrebbero un giorno rivoltarglisi contro.

D’altra parte è anche vero che i governi, nei cosiddetti Paesi democratici, hanno bisogno del consenso delle masse, per cui, se si riesce a smuovere l’opinione pubblica in una certa direzione, ci sono buone possibilità che anche chi ha il potere vada nella stessa direzione, ad esempio attraverso una condanna chiara e diretta e magari un intervento verso chi è responsabile di violenze su larga scala e genocidi.

Ed è qui il problema: come si fa a smuovere l’opinione pubblica? Anzi, come si fa a smuovere il singolo individuo, specialmente se abituato a vivere in un mondo tutto sommato ricco, in cui la violenza esiste ma è sporadica e che comunque non ha mai davvero provato sulla propria pelle gli orrori di una guerra o di una rivoluzione?

Vi chiedo ora di fare una piccola autoanalisi. Vi suggerisco di essere il più onesti possibile con voi stessi, per non cadere nella sindrome dell’«è vero ma non per me». Provate a pensare a quante volte avete sentito di incidenti aerei o ferroviari, di cataclismi che hanno ucciso decine di migliaia di persone in qualche angolo sperduto del pianeta. Molto spesso, specialmente per gli incidenti aerei, non esistono immagini della sciagura o delle vittime. Basti pensare al volo AF447, ovvero l’aereo dell’AirFrance recentemente scomparso al largo del Brasile. In questo caso i media si limitano a fornire poche scarne cifre: 228 morti, una decina i bambini. La cosa finisce lì: ci si sente un attimo tristi e poi si torna a fare quello che si faceva prima. Non è cattiveria: dovessimo davvero soffrire come i familiari delle vittime per ogni incidente che avviene nel mondo finiremmo per suicidarci per il dolore. Eppure, molti anni fa, un bambino cadde in un pozzo artesiano in località Selvotta, una piccola frazione di campagna vicino Frascati. Si chiamava Alfredo e il tentativo di salvarlo tenne più di 21 milioni di italiani incollati ai televisori per ben 18 ore di diretta no stop. Purtroppo non fu possibile tirarlo fuori dal pozzo vivo ma ancora molti se lo ricordano. Perché? Perché un solo bambino caduto in un pozzo fa più impressione di dieci bambini morti in un incidente aereo o nel rogo di un palazzo?

Qualcuno ha detto che il nostro cuore è troppo piccolo per contenere tante sofferenze: riusciamo a gestirne una alla volta. Il fatto è che la nostra sensibilità, la nostra empatia, la nostra capacità di condividere davvero un dolore richiede ben più di una mera descrizione di un evento: dobbiamo toccare, dobbiamo sentire, dobbiamo vedere. Prendiamo quello stesso incidente aereo e raccontiamo le decine di storie dei passeggeri che si incrociano, si sovrappongono, si intersecano con casi fortuiti e fatalità: quello che aveva perso il volo precedente e che riesce dopo tanto sforzo a guadagnarsi un posto sull’aereo che lo porterà verso la morte, la coppietta appena sposata in viaggio premio, la famiglia che da anni non faceva una vacanza tutti insieme, la classe che alla fine dell’anno finalmente è riuscita ad andare in una gita scolastica all’estero grazie alla testardaggine di una brava maestra. Diamo a ognuno un nome e cognome, una storia, ma soprattutto un volto, ed ecco che quell’evento assumerà tutt’altro significato per noi. Vale per tutti, non è questione di essere più o meno insensibili.

E torniamo alla questione originale: «Ha senso o no mostrare in modo diretto e crudo le immagini delle violenze che avvengono nel mondo?». La risposta dipende dal perché si stia dando una certa informazione. Se infatti non si tratta di dovere di cronaca ma di un impegno sociale, ovvero quello di non lasciare soli coloro che combattono per i loro diritti, per avere una vita libera e più dignitosa, o anche solo per sopravvivere, come spesso succede quando la guerra bussa alla porta di casa; se questo è l’obiettivo e se è vero che le coscienze si riescono a risvegliare solo quando tocchiamo davvero con mano quella violenza e quel dolore; se è vero che abbiamo bisogno di vedere, di sapere, di conoscere nomi e fatti per sentirci davvero coinvolti; se è vero che i governi si muovono solo se abbastanza coscienze si risvegliano e se è vero che solo quando i governi dei Paesi ricchi si muovono davvero forse si apre un barlume di speranza per le popolazioni oppresse o per le vittime della guerra, allora la risposta non può che essere che . Allora il fatto che i nostri bambini vedano solo attraverso le immagini quello che altri bambini vedono nel cortile di casa, che le donne vedano le violenze e gli stupri che altre hanno dovuto subire, che gli uomini vedano le torture e le mutilazioni di cui altri uomini sono stati vittime, è un trauma assolutamente gestibile e forse addirittura educativo.

Nascondere quelle immagini forse salvaguarderà la dignità delle vittime, ma non farà nulla per impedire che altre ce ne siano in futuro; nascondere quelle immagini forse farà crescere i nostri figli lontani dalle violenze che accadono in quei Paesi lontani, ma non impedirà a quella violenza, un giorno, di bussare anche alle nostre porte.


Un commento su “Dovere di cronaca
  1. utente anonimo ha detto:

    Secondo me certe immagioni di sangue e violenza sarebbero più indicate nei servizi di approfondimento, negli “speciali”: chi vuole sapere, si informa.

    Temo la banalizzazione dell’orrore, il tg che “passa” mentre si versano gli spaghetti, il pupo strilla e il sangue scorre nell’indifferenza.

    Saluti. Franca

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