Colpa di Facebook


Il «Corriere della Sera» ha pubblicato oggi questa notizia:

Si definisce «single» su Facebook,
il marito la uccide con una mannaia

Il 34enne Wayne Forrester si è dichiarato colpevole ed
è stato condannato all’ergastolo. «Ha agito per rabbia»

LONDRA – Ha ucciso la moglie Emma con una mannaia da cucina perché la donna aveva dichiarato su Facebook di essere single e ieri l’uomo è stato condannato al carcere a vita.

il matrimonio era in crisi da tempo

Forrester sarebbe andato a vivere a casa della sorella a Paddington, continuando però a telefonare a Emma per minacciarla di morte

«aveva postato un messaggio su Internet dicendo a tutti che mi aveva lasciato e che era interessata a incontrare altri uomini».

Due sono le considerazioni che vorrei fare a riguardo: una sul fatto in sé, l’altra su come è stata riportata la notizia.

Per quanto riguarda il fatto di cronaca, non si può fare a meno di rilevare uno schema visto infinite volte. Da una parte c’è una profonda crisi relazionale che, partendo da una situazione di difficoltà economica, ovvero non legata tanto all’aspetto affettivo quanto a difficoltà oggettive ad arrivare alla fine del mese, si estende successivamente alla sfera affettiva fino ad arrivare la separazione. Come purtroppo succede spesso, la decisione non avviene tuttavia di comune accordo e questo provoca una spaccatura e la conseguente non accettazione della fine della relazione.

Si tratta di una situazione che non si presenta dall’oggi al domani ma si evolve nel tempo e che spesso, se affrontata prontamente, potrebbe portare a un riavvicinamento o nel peggiore dei casi a una separazione consensuale. Tutto ciò tuttavia non succede perché i parenti, gli amici, la società nel suo complesso non solo tende ad ignorare queste situazioni, ma volta la testa dall’altra parte, imbarazzata, finché non è troppo tardi. Se queste persone fossero state aiutate in tempo, magari non si sarebbe arrivato a questo sanguinoso epilogo.

La rabbia, infatti, il dolore di una separazione non voluta, si mutano spesso in un tarlo che rode la persona dall’interno, portandola a una vera e propria psicopatologia che va ben oltre la semplice gelosia. Se aggiungete poi l’alcool o la droga, magari presi nella speranza di dimenticare, di superare il trauma — spesso aventi viceversa l’effetto opposto — allora non c’è da stupirsi se tutto questo sfocia in una violenza inaudibile. Non è un caso se nalla maggior parte di questi omicidi chi commette il reato poi si lascia prendere senza opporre resistenza, quasi svuotato da quell’atto che gli ha tolto quella che era diventata l’unica sua ragione di vita.

È importante capire che qui non si tratta di giustificare o condannare un atto comunque criminale, ma di capirne la genesi, perché il vero problema è che molti di questi reati avrebbero potuto essere evitati e invece puntualmente avvengono senza che nessuno abbia mosso un dito. Anche il fatto che la donna abbia più volte denunciato le minacce di morte senza che questo comportasse alcun intervento da parte di chi avrebbe dovuto intervenire, ne è una dimostrazione. Nel migliore dei casi queste denunce fanno intervenire le forze dell’ordine o la magistratura, ma ovviamente solo entro i limiti prescritti dalla legge. Purtroppo queste azioni non sono un deterrente sufficiente per chi è sprofondato in una crisi psicologica profonda e il più delle volte, infatti, non impediscono che prima o poi avvenga il peggio.

Nella nostra società queste situazioni dovrebbero essere affrontate all’origine, come si fa per una febbricola che può trasformarsi in una polmonite o una ferita che se non disinfettata in tempo potrebbe evolvere in una brutta infezione. In ambito psicologico, tuttavia, questa mentalità di prevenzione non esiste perché si pensa rappresenterebbe una violazione della sfera personale di un individuo. Il risultato è che a pagare questo modo di pensare sono proprio coloro la cui sfera personale non si vuole violare e di frequente, purtroppo, anche altri che in qualche modo finiscono coinvolti nel tragico atto finale di questo dramma annunciato: figli, genitori, parenti, amici, persino estranei.

Nulla di tutto ciò si dice, purtroppo, quando il fatto ormai è avvenuto. Almeno si potrebbe prender spunto da questo genere di tragici eventi per creare nell’opinione pubblica una consapevolezza nuova, perché ognuno di noi potrebbe essere, un giorno, coinvolto direttamente o indirettamente in una situazione di questo tipo: un parente, un amico, persino noi stessi. E se pensate di essere immuni da questo genere di patologie perché siete individui sani, equilibrati, onesti, non violenti, scordatevelo. Ognuno di noi ha un punto debole, una zona della psiche che se toccata può trasformarsi in qualcosa che non pensiamo d’essere, che non potremmo neppure immaginare d’essere. Se poi siamo davvero persone equilibrate, magari basterà un buon amico, una persona cara o un bravo psicoterapeuta per aiutarci a superare il problema, ma se si rimane soli, se si sprofonda in una sofferenza chiusa in se stessa, che si autoalimenta e che vede il mondo intorno ignorare del tutto il nostro dolore, allora non c’è equilibrio che tenga e ritenersi al sicuro da tutto ciò è solo un’illusione.

Tornando ai media e a come è stata data la notizia dal «Corriere», c’è da rilevare che non solo si è persa un’opportunità di creare appunto nell’opinione pubblica una coscienza di come questo genere di problemi potrebbero e dovrebbero essere affrontati, ma si è giocato sulla spettacolarità per rendere la notizia più intressante. Si tratta di un cliché ormai diventato classico, soprattutto per quello che riguarda la rete. Cosa va di moda oggi? Facebook? Bene: e Facebook sia! L’altroieri era Internet, poi Second Life, oggi Facebook, domani chissà. Se la moda del momento è in qualche modo coinvolta, anche indirettamente, ecco che diventa il punto focale, il colpevole, la causa prima. Un po’ come quando si accusa la rete di essere un fattore di amplificazione della pedofilia. Alla fine questo modo di presentare le cose è controproducente perché la gente finisce per attribuire a quello che è solo un mezzo di espressione la causa di eventi e situazioni che hanno ben altre origini, spesso legate al nostro comportamento, a quello che facciamo, anzi, molto spesso, a quello che non facciamo.

Perché il vero problema è che ormai ci siamo abituati a non guardare, a non voler vedere, perché vedere vorrebbe dire porsi la questione su come intervenire e nessuno vuole assumersi la responsabilità di fare qualcosa. Poi, quando avviene l’inevitabile, il tutto viene presentato ormai come uno spettacolo, qualcosa di cui stupirsi, magari anche scandalizzarsi, arrabbiarsi, alzare la voce per cercare il colpevole. È colpa di Facebook, delle reti sociali, del web, di qualsiasi cosa ma non nostra. Mai nostra! Noi siamo puliti, noi non abbiamo fatto nulla di male. E in effetti non abbiamo fatto proprio nulla e nulla continueremo a fare, salvo inventarsi qualche altro gustoso titolo per il prossimo articolo da pubblicare.


3 commenti su “Colpa di Facebook
  1. utente anonimo ha detto:

    Questi pensieri su quel caso sono molto interessanti. Ci sono due punti:

    – Succedono troppo spesso i reati del genere, provocati dalle crisi del rapporto tra due persone. Allora si dovrebbe trovare una possibilità di evitare che una tale crisi arriva ad un punto che uno dei due commette un crimine del genere.

    Ma mi sono chiesta subito: come si può fare? Si tratta di problemi all`interno di una relazione di coppia. Credo che nella maggior parte dei casi gli altri, parenti, amici ecc. non si rendono conto della situazione. Va bene, se per esempio ci sono delle minacce di morte che vengono denunciate e più o meno ignorati delle autorità, le leggi devono essere cambiate per avere più possibilità di intervenire.

    Ma prima di una tale denuncia, che cosa si potrebbe fare? È difficile già rendersi conto che ci sono dei problemi. Essendo amico di uno dei due, ci si può parlare, Non sono convinta, però, che abbia un grande effetto. E la società? Bella idea che divrebe intervenire, ma non praticabile.

    “In ambito psicologico, tuttavia, questa mentalità di prevenzione non esiste perché si pensa rappresenterebbe una violazione della sfera personale di un individuo.” – Sì. Lo capisco anche. Chi vuole che i psicologi si intermettono senza essere chiesti? Io no. È difficile trovare una definizione o dei limiti che valgono per tutti fino a quale punto deve essere rispettata la sfera privata.

    – Secondo punto: le media.

    Logico che “Colpa di Facebook” è un bel titolo, perché Facebook è di moda ed i rapporti online sono un fenomeno nuovo e anche molto discusso. Allora quel titolo attrae l`attenzione.

    Naturalmente non è colpa di Facebook. È il fatto che la società è cambiata anche con le nuove possibilità di pubblicare qualcosa. Se la donna ha messo “single” nel suo profile, sicuramente è stato anche un invito per gli amici di parlarne con lei. E lo avranno pure fatto. Ma dubito che qualcuno sarebbe riuscito a parlarne con LUI.

    Parlando del`assumersi la reponsabilità: in pratica, come si può fare?

  2. Avatar photo Dario de Judicibus ha detto:

    La tua è una domanda valida, ma vediamola in un altro ambito. In una famiglia c’è una ragazza che si droga. I genitori non sanno che fare. Se non intervengono prima o poi si metterà nei guai ed entrerà in una spirale dalla quale sarà ancora più difficile uscire: furti, prostituzione, qualunque cosa pur di procurarsi una dose. La ragazza è maggiorenne, per cui legalmente adulta. È giusto intervenire se i genitori chiedono aiuto? E ancora: in una coppia il marito ha seri problemi psichiatrici. In passato sarebbe stato chiuso in manicomio ma oggi questa possibilità non esiste più. Ogni tanto si fa prendere da attacchi inspiegabili d’ira e ha già inseguito la moglie con un coltello una volta. Nessuna ferita: solo la testimonianza della donna. La polizia ne ha preso atto e se ne è andata: di più non può fare. La vicina di casa però ne ha viste e sentite di tutti i colori. È giusto che segnali la cosa e qualcuno intervenga?

    La mia risposta è sì, non solo è giusto ma doveroso, esattamente come è doveroso un intervento di quarantena se si scopre che in una famiglia qualcuno è stato colpito da una malattia epidemica che può rappresentare un problema per tutti. I dubbi che tu ti poni sono sacrosanti ma ricorda che se per secoli incesti, abusi sessuali su bambini e bambine così come violenze ai coniugi e ai figli, sono state possibili è proprio per la “sacralità” della famiglia, la sua inviolabilità, il principio che ognuno i panni sporchi se li deve lavare in famiglia.

    Semmai il problema è chi debba intervenire e come, ma se almeno si iniziasse a farlo quando una, se non più persone coinvolte, chiedono aiuto, sarebbe già un risultato. Perché il problema è che spesso la richiesta d’aiuto c’è, ma viene ignorata, per tutta una serie di motivi, legali, di competenza, soprattutto culturali. Hai idea quanti di quei padri separati, che poi alla fine si sono suicidati, avevano chiesto disperatamente aiuto a parenti, amici, istituzioni? Di fronte a queste situazioni la gente si ritrae, imbarazzata, non sa cosa fare, ha paura. È la stessa reazione che si ha spesso di fronte a un malato di AIDS, con la differenza che tutti conoscono l’AIDS mentre la maggior parte di quelle che spesso sono vere patologie sono del tutto sconosciute ai più.

    Quindi il primo passo deve essere informare, spiegare i sintomi, quali sono i segnali di qualcosa che potrebbe diventare ingestibile, come affrontarla, chi può aiutare e persino come aiutarsi a vicenda prima che la crisi superi quella boa che porta al conflitto e quindi all’impossibilità di un lavoro di coppia, almeno senza un aiuto esterno. Informare è la prima cosa ed è per questo che punto il dito sui media, perché se non sanno come farlo, almeno non usino questi casi per metter su uno spettacolo che è solo controproducente.

  3. utente anonimo ha detto:

    Naturalmente hai ragione.

    In tutti i casi che hai nominato bisogna diventare attivi (in tedesco si chiama “Zivilcourage”, non so come è in italiano). È questo che manca alla nostra società.

    E ci vuole molta informazione da parte delle media e leggi adatti alla situazione attuale.

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