Lieto fine


Ci sono scelte nella vita che sono ingiuste, ovvero che vi costringono a scegliere tra due mali. In pratica, comunque scegliate, farete del male a qualcuno. Pensate di essere in grado di sostenere questo peso? Perché essere maturi vuol dire proprio questo: non tanto fare la scelta giusta in assoluto, ma quella necessaria.

Se pensate di sì, leggete le seguenti storie e poi ne riparliamo.

1

L’incidente nel deserto

Un aereo precipita nel deserto del Sahara. Si salvano solo tre persone: un uomo, una donna incinta e un bambino. I tre non sono parenti, né fanno parte della stessa famiglia. Inoltre non si erano mai incontrati prima e non si erano neppure parlati durante il volo: in pratica sono dei perfetti estranei l’uno per l’altro, incluso il bambino. Grazie a un telefonino dotato di GPS riescono a fare il punto: secondo una carta della zona, l’oasi più vicina si trova a circa centoventi chilometri dal luogo dell’incidente. Purtroppo, anche se il GPS funziona, non c’è campo per comunicare in mezzo al deserto, ovviamente, e quindi devono cavarsela da soli. Infatti l’aereo era andato di parecchio fuori rotta a causa delle condizioni meteorologiche avverse, prima di precipitare, per cui è molto probabile che nessuno sappia dove si trovino e possa arrivare a salvarli in tempo.

Così raccolgono quei pochi viveri che trovano sull’aereo e una mezza dozzina di bottigliette d’acqua e si mettono in viaggio. Ovviamente si muovono prevalentemente al mattino e alla sera, riposando la notte e durante il giorno, quando il sole è alto nel cielo; nonostante questo la marcia è massacrante anche perché la donna deve fermarsi spesso per la stanchezza, essendo già al settimo mese. Dopo aver percorso un centinaio di chilometri sono distrutti e sia i viveri che l’acqua sono praticamente finiti. In effetti è rimasto loro solo mezzo litro di acqua. Con così poca acqua uno di loro potrebbe forse raggiungere l’oasi, ma non farebbe in tempo a tornare con altra acqua per i suoi compagni. In pratica quel mezzo litro può salvare solo una persona. Naturalmente potrebbero dividerselo, ma così facendo morirebbero di sicuro prima di arrivare all’oasi. Sarebbe certo un gesto nobile, quindi, ma assolutamente inutile.

Non è la prima volta che l’uomo attraversa il deserto e sa che anche se esiste una remotissima speranza di incontrare qualcuno man mano che si avvicinano all’oasi, i tre non si trovano su una pista carovaniera, per cui le probabilità di incontrare qualcuno sono quasi nulle. Insomma, se razionano l’acqua e hanno la fortuna di incontrare qualcuno, si potrebbero salvare tutti e tre, ma la probabilità che questo succeda è molto meno dell’un per cento e il tempo non gioca a loro favore. Se invece uno di loro prendesse l’acqua e si dirigesse verso l’oasi, potrebbe a stento farcela a salvarsi, ma gli altri morirebbero di sicuro. Anche avesse un contenitore più capiente della bottiglietta da mezzo litro — il che non è — non ce la farebbe comunque a tornare indietro per salvarli.

Così la soluzione più logica è anche quella più ingiusta: due devono morire per salvarne uno. Non solo: l’uomo è un giocatore di tennis ed è abbastanza in forma, anche se provato. Se fosse lui a prendere la bottiglietta si salverebbe quasi di sicuro. Viceversa la donna è già abbastanza avanti con la gravidanza: difficilmente ce la farebbe a raggiungere l’oasi, anche con l’acqua a disposizione. D’altra parte lei rappresenta due vite, non solo una, per cui lasciarla indietro vorrebbe dire sacrificare ben tre vite per una, non due. Il bambino, infine: è molto giovane, ha solo sei anni, troppo pochi per arrivare all’oasi da solo. Finirebbe per girare in tondo, come succede spesso quando non si hanno punti di riferimento.

Accettato il fatto che solo uno dei tre si possa salvare, da un punto di vista prettamente etico e non pratico, la soluzione meno dolorosa potrebbe sembrare quella che vedrebbe cadere sulla donna incinta la scelta, ma in realtà questo comporterebbe comunque la morte di tutti e tre, quattro se si considera anche il feto. Scartata la donna, si potrebbe pensare al bambino, avendo questi davanti a sé ancora una vita intera, ma anche in questo caso l’esito sarebbe lo stesso: non giungerebbe all’oasi vivo. Così, la scelta più razionale è quella più difficile, più ingiusta, più dolorosa: l’unico che ha veramente una possibilità concreta di salvarsi è l’uomo.

Voi cosa avreste fatto?

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Così l’uomo prende l’acqua, lascia indietro gli altri due e si salva. Dopo tre giorni viene trovato da una carovana di mercanti che lo portano al villaggio più vicino e da lì nella capitale, dove la sua ambasciata lo riporta in patria. All’inizio sono tutti felici che almeno un passeggero sia sopravvissuto all’incidente, ma quando l’intera storia viene resa pubblica inizia il linciaggio mediatico: l’uomo viene marchiato come un mostro, nel migliore dei casi un insensibile senza cuore che pur di salvarsi ha lasciato morire una donna incinta e un bambino di soli sei anni. Fosse morto con loro sarebbe stato un eroe; un eroe morto, ma comunque un eroe. Così invece viene trattato come un essere ignobile, criticato e condannato da tutti.

Alla fine, non sopportando il peso di così tante accuse, una sera l’uomo si procura un corda robusta e si impicca.

2

Missione di pace

Marina è un tenente dell’Esercito. È al comando di una compagnia dotata di mezzi blindati e ha un ottimo addestramento. Sono ormai sei mesi che si trova in Afghanistan, in una missione di pace che somiglia sempre di più a una guerra senza esclusione di colpi. Ha visto morire diversi compagni in attacchi suicidi e agguati e ormai può considerarsi a tutti gli effetti una veterana.

Marina è sposata, ha una figlia di sei anni e un marito impiegato presso un’azienda di servizi a Milano. È lui ad occuparsi della bambina mentre la moglie è in missione. Ancora tre mesi e potrà tornare a casa ma la situazione si è fatta sempre più difficile tanto che recentemente il comando ha modificato le regole d’ingaggio, dando la massima priorità alla salvaguardia delle truppe impegnate sul campo.

In questo momento Marina è nella vettura di testa di un convoglio; accanto a lei l’autista, alla guida del blindato, e il sergente maggiore della compagnia. Devono portare delle medicine a un villaggio vicino che è stato vittima di bombardamenti e dove si ritiene ci siano diversi morti e feriti, anche gravi. Con loro ci sono anche due medici chirurghi e quattro infermieri specializzati che trasportano una vera e propria sala chirurgica da campo.

Purtroppo per arrivare al villaggio è necessario attraversare un territorio controllato in parte dai talebani, dove ci sono state già diverse imboscate, una delle quali ha praticamente distrutto un convoglio danese simile al loro. Per questo l’ordine è di non fermarsi per nessun motivo. I talebani sono ben armati, hanno fucili automatici e bombe a mano, ma si tratta spesso di armi vecchie e non sempre affidabili, per cui è importante non restare bloccati. Se il convoglio continua a viaggiare, possono rischiare qualche ferito in caso di imboscata, se si ferma rischiano di non uscirne vivi.

Per fortuna la strada è in buone condizioni e il convoglio procede spedito. Stanno tuttavia per attraversare un’area collinosa, ideale per un agguato, per cui sono tutti con i nervi tesi, inclusa Marina. A un certo punto, in lontananza, Marina vede una persona in piedi in mezzo alla strada. Prende il binocolo per vedere di cosa si tratta. In ogni caso non possono fermarsi: gli ordini sono tassativi.

Si tratta di una bambina, probabilmente di otto, dieci anni, che sta ferma proprio al centro della strada, in un punto nel quale la carreggiata si insinua fra due basse colline. Non c’è modo di evitarla. Marina chiede all’autista di suonare il clacson ma la fanciulla non si sposta e il convoglio è ormai a meno di un chilometro. Il tenente sa benissimo di cosa si tratta: è già successo in passato. I talebani costringono donne e bambini a stare in mezzo alla strada per ostacolare i convogli e costringerli a fermarsi, con la minaccia che se non ubbidiranno, distruggeranno il villaggio e ne uccideranno tutti gli abitanti.

Altri cinquecento metri e Marina vede perfettamente la piccola: è spaventata, ha il viso sporco di polvere, rigato dalle lacrime, le braccia rigide lungo i fianchi, le mani strette a pugno. Ormai sono solo a duecento metri dal punto in cui si trova la fanciulla e non c’è alcun modo di evitarla perché il terreno ai lati della strada non permette ai veicoli una deviazione. O si fermano o la investono. Il fatto è che se si fermano, quasi sicuramente si scatenerà l’inferno: saranno sottoposti a un tiro incrociato e probabilmente al lancio di bombe incendiarie artigianali per costringerli a lasciare i blindati. Marina si dice che forse non è un’imboscata, forse la bambina vuole qualcosa da loro, ma sa dentro di sé che non è vero: ha troppa esperienza per crederlo davvero.

Il tenente ha pochi secondi per decidere: può fermarsi e rischiare di perdere il convoglio, il che vorrebbe anche dire non portare a termine la missione, ovvero non portare gli aiuti e i medicinali promessi al villaggio verso il quale sono diretti, oppure accelerare e investire in pieno la fanciulla. Probabilmente qualche blindato sarà oggetto di colpi e forse verrà anche colpito da una bomba, ma avranno buone probabilità di uscirne vivi. Il tenente sa perfettamente che la bambina è comunque condannata: se anche si fermassero verrebbe molto probabilmente colpita dal fuoco che i talebani scatenerebbero su di loro, cosa peraltro già successa in passato in casi analoghi. Una cosa tuttavia è vederla morire uccisa dai talebani, un’altra investirla lei stessa con il blindato.

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Marina dà l’ordine all’autista di accelerare e comanda a tutti i mezzi del convoglio di fare altrettanto. Ancora prima che il blindato investa la fanciulla partono i primi colpi e si sente anche un’esplosione. Il frastuono è tale che Marina a momenti non sente neppure il colpo sordo del veicolo che colpisce il corpo della bambina. Alla fine la carovana passa sostanzialmente indenne e raggiunge finalmente il villaggio dove la squadra medica si mette subito all’opera per montare la sala chirurgica da campo. Solo due soldati e un infermiere hanno riportato ferite comunque lievi: qualche scheggia delle sei bombe a mano rudimentali lanciate contro il convoglio.

Così Marina viene insignita di una medaglia al valor militare per aver salvato il convoglio e congedata con onore, ma la sua vita ormai è cambiata: non riesce più a dormire la notte, è colpita da una profonda depressione che finirà per distruggere il suo matrimonio e farle perdere anche la figlia, affidata al padre perché la donna non riesce più a guardarla negli occhi senza vedervi riflessa l’immagine della fanciulla afghana che ha ucciso. Infine viene ricoverata in una clinica psichiatrica dove passa i successivi sei anni, senza tuttavia mai rimettersi del tutto. Una sera, intontita dagli psicofarmaci e da un’eccessiva dose di alcool, viene investita da un’auto. Muore due giorni dopo in ospedale a causa di un’emorragia interna.

3

Sperimentazione

Giorgio e Luciana sono due giovani ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia. Si sono conosciuti all’università e dopo tre mesi sono andati a vivere insieme, mettendo a fattor comune anche le rispettive famiglie di animali domestici, dato che Luciana ha tre gatti e Giorgio un beagle e una femmina di pastore tedesco, oltre che due tartarughe e persino un coniglio. Sono giovani, entusiasti e pieni di ideali: vogliono cambiare il mondo e si amano molto.

Da due anni sono impegnati in una ricerca molto importante relativa a un approccio innovativo in ambito immunoterapeutico. Passata la prima fase, ovvero quello della sperimentazione in vitro, hanno iniziato la seconda fase della ricerca, ovvero la sperimentazione su esseri viventi. Essendo entrambi amanti degli animali, questa fase sta creando loro molto disagio anche se sanno essere necessaria, dato che ci sono tutta una serie di effetti collaterali da verificare e che riguardano la reazione dell’intero organismo e non solo le specifiche reazioni. La sperimentazione basata sulle culture non può fornire questi dati e per giunta la sperimentazione va fatta obbligatoriamente anche su primati, perché quella sui roditori non è sufficiente dato che vanno verificati alcuni processi metabolici tipici solo di questo ordine animale.

Giorgio sa che questa fase è necessaria prima di passare alla terza e ultima fase, ovvero quella della sperimentazione su esseri umani, ma la cosa è talmente dolorosa per lui che ha deciso di confidarsi con un amico. In effetti sa già che procederà comunque perché ha già preso in considerazione possibili alternative e ognuna metterebbe a rischio i pazienti di un’eventuale terza fase. Oltretutto, proprio pochi giorni prima era andato a trovare, assieme a Luciana, la figlia dodicenne di una sua carissima amica, una bambina di nome Sara, ricoverata in un ospedale vicino. A Sara era stato diagnosticato fin da piccola uno dei tumori che i due si riproponevano di debellare con la loro ricerca ed era stato anche uno dei motivi per il quale Luciana aveva proposto a Giorgio di occuparsi proprio di quella ricerca.

La bambina era in ospedale per essere sottoposta all’ennesimo trattamento di chemioterapia e sebbene fosse molto vivace e avesse una gran voglia di vivere, era evidente come fosse molto provata dalla terapia. Giorgio sapeva bene come quel tumore avesse buone probabilità di ripresentarsi a distanza di anni anche dopo che la chemioterapia avesse avuto successo e per questo era determinato a scoprire una cura. Ci sarebbero voluti almeno tre anni prima che fosse possibile metterla a disposizione, nel caso avesse passato tutte e tre le fasi sperimentali e fosse stato stabilito il protocollo terapeutico, ma almeno la piccola Sara non avrebbe più dovuto subire un trattamento così invasivo, e come lei tanti altri piccoli pazienti. Si trattava infatti di una patologia che colpiva prevalentemente i bambini fra i tre e i dieci anni.

Una settimana dopo aver visitato Sara in ospedale, Giorgio e Luciana si recano presso l’istituto ma vengono bloccati da un picchetto di antivivisezionisti che cercano di impedire loro di entrare nel laboratorio. Una degli attivisti è la fidanzata dell’amico di Giorgio che, saputo del progetto, aveva organizzato subito una manifestazione di protesta. I due giovani provano a far capire ai manifestanti, tutti più o meno loro coetanei, che non c’era altro modo e che era assolutamente necessario procedere con la sperimentazione sugli animali, che avrebbero cercato di farla nel modo migliore possibile, riducendo al minimo le cavie utilizzate ed evitando loro sofferenze inutili, ma non c’è verso. Alla fine, sconfortati, forzano il picchetto ed entrano nel laboratorio.

Da quel momento i due diventano il bersaglio di diverse associazioni che arrivano ad accusarli di essere dei mostri e degli assassini. Fra loro molti ex-amici della coppia che iniziano ad ostracizzarli e far loro intorno terra bruciata. La cosa finisce in rete dove migliaia di persone, che nulla sanno dei due e delle loro ricerche, iniziano a bersagliarli di insulti al punto che in breve dai messaggi in rete si passa alle telefonate anonime notturne e ad alcuni atti di vandalismo sull’auto e sulla casa della coppia.

Luciana in particolare è molto colpita, anche perché fra gli attivisti c’è un suo vecchio compagno di scuola con il quale aveva stretto una profonda amicizia. La giovane ricercatrice cerca di spiegargli come grazie alla sperimentazione animale sarebbe stato possibile rilevare in anticipo eventuali danni per gli esseri umani, evitando così di sperimentare su pazienti e volontari terapie potenzialmente molto pericolose, ma il giovane non vuole sentire ragioni. È convinto che basti la sperimentazione in vitro per salvare bambine come Sara e non avendo le conoscenze scientifiche necessarie, né Giorgio né Luciana riescono a fargli cambiare idea.

I due sono a un bivio: possono rinunciare alla ricerca e riguadagnarsi, forse, l’affetto e il rispetto dei loro amici, sapendo tuttavia che questo vorrà dire condannare a morte tanti pazienti che come Sara sono ammalati di quel particolare tipo di tumori, oppure andare avanti nella sperimentazione animale che, pur nel rispetto delle leggi dell’Unione Europea, prevede comunque alcuni interventi molto pesanti sulle cavie. Tutto ciò nella speranza di poter un giorno trovare finalmente una terapia efficace senza tuttavia avere alcuna certezza di successo. In questo caso, tuttavia, i due sanno che finirebbero per perdere tutti i loro amici oltre a venire bollati definitivamente come degli assassini insensibili.

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Giorgio e Luciana sanno che non ci sono alternative. Per loro, più che per tanti altri ricercatori, è durissima dover sperimentare sugli animali perché sono dei veri amanti della natura, ma sanno anche che da un punto di vista scientifico non c’è alternativa e che molte delle proposte delle associazioni antivivisezioniste sono basate su dati parziali o opportunamente selezionati per sostenere le loro tesi, spesso in buona fede. Così continuano la sperimentazione.

Una sera qualcuno getta una bottiglia incendiaria nel laboratorio dove Luciana si era attardata per fare dei calcoli. Probabilmente chi lo ha fatto pensava non ci fosse più nessuno nell’edificio, ma la ragazza rimane intrappolata in uno dei gabinetti di ricerca e muore soffocata a causa dell’incendio che distrugge buona parte del laboratorio. Giorgio tuttavia non si dà per vinto: lascia l’Italia e va a lavorare in Inghilterra dove dopo due anni pubblica un articolo decisivo che stabilisce una nuova terapia per tutta una famiglia di tumori. Sara è salva e come lei tante altre persone, ma Luciana non c’è più e non saprà mai che il suo coraggio ha permesso di salvare tante vite. Giorgio, nonostante il successo, decide di lasciare la ricerca e si reca in Africa come volontario con l’organizzazione internazionale Medici senza Frontiere. Due anni dopo muore di ebola in uno sperduto villaggio del Congo.

Tutte e tre queste storie sono frutto di fantasia ma sono basate su fatti e situazioni vere, effettivamente accadute. Lo scopo di questo articolo, tuttavia, non è quello di dimostrare che una certa scelta sia migliore di un’altra e tanto meno che essa sia giusta e l’altra sbagliata, ma solo che esistono delle situazioni fuori dal nostro controllo, nelle quali le possibilità di scelta sono limitate e spesso la scelta più realistica, ovvero quella che porta al minore dei mali, fa a pugni con quelli che, volenti o nolenti, sono principi etici consolidati nella nostra società.

In pratica, attenersi a tale principi vuol dire, in certi casi, fare la scelta peggiore, ovvero quella che fa più danni; d’altra parte non rispettarli, spesso vuol dire essere ostracizzati e condannati da una società che in genere ragiona con la pancia o con il cuore e non con la testa. Il punto è che ognuno di noi potrebbe trovarsi un giorno di fronte a questo dilemma e non esiste alcun modo di evitarlo. Pensateci, la prossima volta che riterrete che bastino buone intenzioni e saldi principi per fare la scelta giusta.


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