Le parole che Michele Marziani ha scelto per scrivere in esordio «La trota ai tempi di Zorro» (per i tipi della di Derive Approdi) hanno qualche cosa in comune con un “vecchio” (lui stesso di definisce così) della letteratura italiana: Erri De luca. Lo so, non “fa” fine paragonare due scrittori, ma la tecnica stilistica e la profondità di molti passaggi del testo, assomigliano alla narrativa dello scrittore napoletano. Questo per rendere in chiaro la cifra dello stile minimalista, anzi, per meglio scrivere, intimista di Marziani. Della storia, premetto, non segnalerò nulla se non che è un mondo affastellato di ricordi vissuti da Stefano Baldazzi Morra, tredicenne e con un paio di occhiali difficili da portare. Impeccabile e centrale la capacità, nient’affatto gratuita, di Michele Marziani nel cancellare visuali e schemi mentali adulti per filtrarli attraverso lo sguardo di un adolescente che si cresce con i primi peluzzi, come cresce tutto ciò che gli sta intorno. Un racconto esistenziale e narrato tutto presa diretta da Stefano Baldazzi Morra, con un controllo dello spazio, del tempo e della memoria che fanno di Marziani uno scrittore perspicace e leggero.
Ecco perché è un libro riuscito, capace di aprire un cerchio per chiuderlo senza l’utilizzo di fuochi d’artificio. Nel mondo di Stefano Baldazzi Morra, la mamma e il papa diventano le figure di quando avevamo superato da poco la prima decade di vita, la scuola riassume con delicata ma precisa presenza il luogo che era quando tutti la frequentavamo agitati e “subbugliati” da tutti i sensi del mondo e le immaginazioni gonfie di speranze di quel periodo. Così la pesca alla trota diventa un modo per non consentire al cinismo della gente di travolgere la gioia di Stefano Baldazzi Morra e la sua vitalità non sbandierata, caso mai sommessa, per poi ridurla a tristezza infinita, una sorta di chiave di lettura del mondo. Allora non rimangono altro che i ricordi di quando tutto era, si instabile, visionario e trepidante, ma con un futuro che regalava sogni a mani piene.
Un assemblaggio di parole assiepate dalla capacità di non scadere mai nella retorica e nel manierismo. Ritratti di fiumi, strade, case, colori, litigi fra bambini e il ricordo di un padre intristito d’alcol e condurre una vita da barbone. Il finale, scrivo solo, che è travolgente nella sua metodica quotidianità crepuscolare ma venata dalla illibatezza di Stefano Baldazzi Morra.
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