Papponi di Stato – Parte seconda


Parte prima dell’articolo di Roberto Poletti e Roberto Scaglia.
Pubblicazione sul blog «L’Indipendente» autorizzata dall’On. Roberto Poletti.

Continua l’inchiesta in cui l’On. Roberto Poletti, iscritto nelle liste della Federazione dei Verdi e diventato deputato il 6 giugno 2006 al posto di Carlo Monguzzi, ci racconta la sua esperienza di parlamentare con un dietro le quinte da non perdere.

Gli uffici dei deputati

Questa storia degli uffici dei deputati è davvero curiosa. Si trovano a Palazzo Marini, tre minuti a piedi da Montecitorio. Per mantenerli, lo Stato paga circa 30 milioni di euro all’anno soltanto di affitto. Una decina di anni fa, il già grande complesso è stato addirittura ampliato, adesso è arrivato a 60mila metri quadrati. E ci credo: il fatto è che i parlamentari non confermati non ne vogliono sapere di mollare le stanze, dunque passano mesi prima che i nuovi eletti possano avere a disposizione lo spazio. Così succede anche a me, Poletti Roberto, onorevole di fresca nomina: «E il mio ufficio?» chiedo. «Un po’ di pazienza, adesso salta fuori». Poi scopro che l’ex titolare deve ancora liberarlo, e nessuno si può permettere di impacchettargli le scartoffie: lo farà lui, quando avrà voglia e tempo.

Gli uffici sono assegnati dai gruppi parlamentari. Ed è un litigio continuo: riunioni su riunioni, trattative estenuanti che sembra la Finanziaria, «a me ne serve uno un po’ più grande», «non datemi quello vicino ai bagni, per favore» e via dicendo. Problemi e lamentele finiscono tutte sul groppone di Giampiero Spagnoli, funzionario storico del gruppo dei Verdi e anche di quello misto, bresciano cui Roma non ha rubato l’accento né la voglia di lavorare: è lui che tranquillizza, media, propone, risolve che neanche Gianni Letta. In ogni caso, l’ufficio assegnato me lo liberano dopo l’estate, a tre mesi dall’elezione. All’inizio, mio vicino di stanza è Massimo Fundarò, ma capisco che la situazione è ancora in evoluzione. L’onorevole Arnold Cassola, infatti, non la manda giù: dice che il suo, di ufficio, proprio non va bene, pare sia troppo rumoroso, soprattutto a causa di una caldaia sistemata nei paraggi.

E insomma, Cassola si mette a far la posta agli altri, controlla le frequenze, cronometra i tempi, conclude che Fundarò il suo lo usa poco e invece per lui sarebbe perfetto. Tra l’altro Cassola è stato eletto in una circoscrizione estera, e questi hanno un po’ la fissa di essere discriminati dai deputati indigeni, «ma almeno a noi le preferenze ce le hanno date votando il nostro nome, mica come voi». Alla fine, più che altro per sfinimento generale, la spunta. E trasloca nell’ufficio accanto al mio.

E allora, parliamo del mio nuovo stanzone da deputato: non è niente male. E al terzo piano, stanza numero 321. Due scrivanie, due computer, fax e telefono e stampante, una televisione, un frigorifero. E poi tre armadioni, due sedie-poltroncine di quelle comode, una finestra che dà sul cortile interno. Di cancelleria ce n’è a strafottere: penne, matite, colle stick, forbici, fermagli e graffette e graffettine da graffettare il mondo, sbianchettatori, evidenziatori, persino le gomme blu, quelle per cancellare la penna (e mi chiedo: ma chi è che oggi cancella le cose scritte a penna con la gomma blu, che se non stai attento ti buca anche il foglio? Non lo fanno più nemmeno alle elementari). E poi carta, un mare di carta, fogli, buste grandi medie e piccole, bloc notes, cartelline: d’istinto, mi vengono in mente le proteste della Polizia, che più volte si è lamentata perché non ne hanno nemmeno per fotocopiare i verbali, o le mamme costrette a portare le risme di carta alla scuola del figlio. Qui, invece, siamo sommersi, alla faccia dei boschi rasi al suolo, e meno male che siamo i Verdi. Peraltro, scoprirò poi che la fornitura di cancelleria viene rinnovata ogni tre mesi: ti arrivano gli scatoloni pieni di questa roba e non sai dove metterla, perché del resto ne hai usato un decimo se va bene. E gli scatoloni con i ricambi te li spediscono a qualunque indirizzo, anche a casa. Oppure, se hai un’urgenza, vai direttamente al magazzino, nei sotterranei di Montecitorio. E fai scorta.

Deputati latitanti

Il punto è che questi uffici non li usa nessuno. O si è in Aula, oppure in Commissione, magari in trasferta di lavoro, altre volte semplicemente a casa. Senza contare che c’è l’ufficio del gruppo parlamentare, che sbriga pratiche a richiesta. Oppure quello del partito nazionale, che volendo svolge le stesse mansioni. O l’altro del partito regionale, infine il partito cittadino. E così, la politica italiana è tutta un doppione del doppione del doppione. Risultato: ti aggiri per gli eleganti piani di Palazzo Marini, percorri i corridoi arredati con tappeti e quadri e piante, e subito sei immerso nel paradosso di un dedalo di uffici senza alcuna traccia di lavoratori. Di deputati ne vedi uno ogni tanto, e in genere perché lì ha dato appuntamento all’insegnante di lingua o deve ritirare qualche fax o magari schiacciare un pisolino. I commessi fanno capannello attorno alle scrivanie, scattano in piedi e si danno un contegno quando passa qualcuno, il più delle volte sono costretti a ripiegare sul sudoku. E non si dica che sono io, scansafatiche, a essere allergico all’onorevole scrivania gentilmente messa a disposizione dallo Stato: in questo senso, basta citare tra gli altri un ordine del giorno presentato dalla Rosa nel Pugno, che sottolinea come «ogni deputato dispone di un ufficio ubicato a Palazzo Marini, ma è praticamente impossibile il suo utilizzo durante le giornate di lavoro parlamentare, e per tali uffici, di norma scarsamente utilizzati, la Camera sostiene un costo esorbitante». Appunto, è quello che dico anch’io. Per di più, una gentile circolare interna ha il piacere di informarmi che, «per consertirti di svolgere con il supporto di adeguati strumenti tecnologici il mandato elettivo», lo Stato è pronto a coprire una spesa «per l’acquisto di strumentazioni e materiali informatici inerenti la dotazione di una postazione di lavoro» di 3.000 euro. In sostanza, ci regalano il computer portatile più costoso che ci sia. Poi si sussurra che qualcuno, in quella cifra, riesca a farci stare anche il lettore DVD o la lavatrice, magari strizzando l’occhio al negoziante mentre compila la ricevuta. Ma questa è certamente un’ignobile insinuazione.

Evviva i portaborse

Tra le dotazioni da ufficio a disposizione dei deputati c’è poi il collaboratore personale, meglio noto come portaborse, termine che non mi piace perché offensivo nei confronti di persone spesso sfruttate, pagate in nero, e magari poi sono loro che redigono i comunicati contro il precariato poi diffusi da coloro che si presentano come paladini dei lavoratori senza contratto. Non che io voglia fare il moralista: infatti ne assoldo uno (assumo, in questo caso, è una parola grossa), bravissimo, uno dei tanti studenti che si propongono per arrotondare. Ma mi accorgo che davvero posso farne a meno, e dopo cinque mesi interrompo il rapporto. Interrogativo: faccio bene perché smetto di uniformarmi a una prassi vergognosa, o sono uno stronzo perché lascio a casa lo studente? Non sono riuscito a rispondermi. Tra l’altro, dopo che la trasmissione Le Iene fa esplodere lo scandalo e tutti fanno gli gnorri, «Chi, io? Chi, lui?», e Bertinotti tuona, «Questi vanno messi in regola!», ecco che subito arriva la segnalazioncina, con il solerte onorevole Evangelisti, dell’Italia dei Valori, che gira a tutti i deputati e senatori «la comunicazione indirizzatami dallo Studio Interlandi che considero in grado di proporre una consulenza professionale adeguata ad affrontare le problematiche inerenti la regolarizzazione del rapporto di lavoro tra i parlamentari ed i propri collaboratori». Un bel grazie a Evangelisti dai parlamentari e dallo Studio Interlandi.

Dimenticavo: un altro gadget essenziale per il duro lavoro d’ufficio dell’onorevole è il timbro autoinchiostrante. Io non lo sapevo, poi un giorno vedo due deputati che scherzano, lasciano il marchio dappertutto, «guarda il mio», «ma va, io ci no messo pure capogruppo», sembrano ragazzini. Incuriosito, m’informo. Mi viene spiegato che va richiesto «giù al magazzino» e te lo fanno avere. Ora, non è che la spesa per i timbri dei deputati sia determinante per incrinare ulteriormente il malmesso bilancio statale, ma a che cosa serve? Forse per evitarci anche la fatica di firmare? Dice: ma allora tu ci hai rinunciato. Io? E perché? Chi sono, il più sfigato? E allora, vai col timbro: On. Roberto Poletti. E lo piazzo lì, sulla scrivania. L’avrò usato due volte.

A proposito di timbri, alla Camera c’è anche un ufficio postale, si trova vicino all’Aula. E come funzionano bene le Poste, per noi parlamentari: impiegati gentilissimi, quel cartello con scritto «gli onorevoli deputati hanno la priorità», chissà mai che qualche dipendente si metta in testa di farci fare un minuto di fila. Ogni deputato ha la sua casella, ti mandano un avviso, «c’è posta per lei», tu vai e ritiri. Se devi inviare a te stesso lettere o plichi o raccomandate fuori sede, francobolli e tasse varie non si pagano. E a Natale, sono gratis anche i biglietti d’auguri, con il simbolo della Camera dei deputati e un’illustrazione d’epoca: «Caro collega, abbiamo il piacere di comunicarti che per le prossime festività natalizie potrai, come di consueto, richiedere la dotazione annuale a te spettante di n. 100 biglietti medioevalis a colori e n. 100 biglietti medioevalis color seppia». Scopro poi che nel caso non mi piacessero, ho a disposizione 800 euro da spendere entro l’anno per farmi stampare dalla tipografia interna qualunque cosa voglio.

Servizio agenda

Mica finisce qui: per Palazzo Marini, quello dove si trovano gli uffici, c’è un servizio postale specifico. Nel senso che se per esempio devi ritirare le fondamentali agende della Camera dei deputati e ti tocca andare fino a Palazzo Valdina, che si trova a una distanza di metri seicento circa, basta segnalare il problema, e l’agenda la va a prendere e te la porta l’incaricato della società privata che gestisce il servizio. «Ma dài, per un’agenda?». Eh no, perché — come ci comunica la consueta circolare — «la dotazione [ma quante dotazioni abbiamo?] consiste in un’agenda da tavolo personalizzata, un’agendina semestrale in pelle personalizzata e due agendine in pelle». Cioè, di agende ce ne danno quattro. Quattro a testa, che per 630 deputati fanno 2.520 agende. Poi uno dice che i politici hanno perso il contatto con la realtà: è che noi, con i problemi che fanno imbestialire i normali cittadini, non ci scontreremo mai più. La realtà ce la siamo dimenticata.

Sedute di commissione

La sala di Commissione è ai piani alti, per raggiungerla devi salire una scalinata monumentale. Per farla semplice, le Commissioni Parlamentari sono delle specie di mini parlamentini, dunque composte da rappresentanti di tutti i partiti proporzionalmente alla loro presenza in Parlamento. Le cosiddette permanenti, 14 in tutto, sono incaricate di discutere di un determinato argomento o esaminare i progetti di legge, per metterli a punto e poi eventualmente sottoporli al voto dell’Aula. Poi ci sono le bicamerali, che raggruppano esponenti di Camera e Senato, e le Commissioni d’inchiesta, che approfondiscono vicende di pubblico interesse e sono investite anche di poteri giudiziari, in genere invocate una volta ogni due giorni da una parte politica per dare addosso all’altra. Fine della lezioncina. Inciso: uno può anche essere membro di più Commissioni, e neanche tanto raramente succede che si riuniscano contemporaneamente, così che da qualche parte è per forza assente. Secondo e ultimo inciso: ogni presidente di Commissione ha a disposizione un altro ufficio e relativo staff, oltre a quello cui ha diritto in qualità di deputato, e il suo stipendio è maggiorato. Misteri dell’organizzazione parlamentare.

«Diamoci del Lei»

Una cosa strana delle Commissioni è che tu arrivi nella sala e chiacchieri normalmente con gli altri componenti, così, parli del più e del meno, poi a un certo punto comincia la riunione e di colpo cambia tutto, «adesso la parola al presidente Folena», e lui «grazie, caro vicesegretario», e comincia a parlare, e tutti si danno del Lei. E quando siamo seduti intorno al tavolone e hai bisogno di passare un foglio a un altro deputato, non è che ti sporgi o ti alzi e glielo dai: no, chiami il commesso, lui arriva, gli consegni il documento, quello fa tre metri e lo porta all’altro. Ora, magari adesso la sto mettendo giù un po’ caricaturale, ma in effetti è davvero così: nei lavori parlamentari, la formalità burocratica viene spesso esibita nei momenti più inutili, e dimenticata quando invece potrebbe aver senso. C’è da dire che tutto questo cerimoniale nasce anche dall’esigenza di verbalizzare le riunioni, pensa che casino per il trascrittore se tutti si parlassero uno sopra l’altro. Resta il fatto che avrà anche un senso, ma la prima volta fa uno strano effetto, quasi teatrale. Pare una commedia.

«…e adesso la parola al capogruppo dei Verdi Poletti…».

E infatti scopro che sono capogruppo, pensa te. Non lo sapevo, giuro, e quasi mi sembra d’esser stato promosso, «evvài, che sono già capo».

Il fatto è che, come ho già detto, le commissioni sono parlamentini, e io sono l’unico rappresentante dei Verdi, e quindi in quanto tale sono capogruppo. «Capogruppo dei Verdi in Commissione cultura, istruzione e ricerca»: mi sono firmato così, quando ho inviato la lettera che mi ha pubblicato il Corriere, proprio vicino alla rubrica di Sergio Romano. E se fossimo stati due, i Verdi in Commissione, l’altro sarebbe stato vicecapogruppo (oppure capo lui e vicecapo io, a seconda). Perché in Parlamento ognuno è capo o vicecapo o presidente o vicepresidente di qualcosa: una commissione, un gruppo parlamentare, un’associazione. Tutti. In realtà, non conti nulla, ma questo sul biglietto da visita non si scrive.

E comunque, ripeto, io sono in «Commissione cultura, scienza e istruzione».

Cultura.

Scienza.

E istruzione.

Argomento più importante e sentito delle mie prime riunioni: Calciopoli.

Cioè, va bene tutto, ma che cosa c’entrano la scuola e la cultura e la scienza con Calciopoli? E sono sempre piene, queste riunioni, durano ore. D’altronde, la vicenda è sulle prime pagine di tutti i giornali, c’è modo di essere citati in qualche articolo. Il nostro gruppo d’ascolto viene pomposamente chiamato «Indagine conoscitiva sulle recenti vicende relative al calcio professionistico con particolare riferimento al sistema delle regole e dei controlli». Le audizioni si susseguono: il presidente del Coni, il rappresentante della Consob, nientepopodimeno che Francesco Saverio Borrelli, il presidente di Mediaset Confalonieri, i rappresentanti dei consumatori e quelli delle tv locali, l’onorevole Josè Luis Arnaut «in qualità di esperto del settore del calcio e dello sport in generale» (?). Ognuno chiede di sentire questo e quello, il ministro dello Sport Melandri viene a riferire. Ma davvero c’è chi pensa che le riunioni in Commissione cultura possano servire alla già strampalata inchiesta su Calciopoli? Ma poi perché discutiamo a Montecitorio di Calciopoli? Per quale motivo? E in realtà, ne parlo così solo perché a me non interessa il calcio, nel senso che chissà quante volte ho invece partecipato con più entusiasmo ad altre discussioni su argomenti che magari m’interessavano, ma ben sapendo che non avrebbero portato a nulla di concreto.

Cultura e Calciopoli

Non che le riunioni di Commissione siano sempre così. Quando i progetti di legge toccano veri interessi o questioni tecniche, allora si fanno i conti e si programma e ci si scontra e cose serie, insomma. Ma ho come l’impressione che troppe volte i nostri siano invece pseudo-approfondimenti del tutto inutili, nel senso che sono ininfluenti, e in fondo lo sappiamo anche noi, che sono ininfluenti. In questi casi, mi vien da dire che noi, per lavoro… chiacchieriamo. Nel senso che ci troviamo, parliamo e magari litighiamo su argomenti che più o meno c’interessano, e alla fine resta nulla. E non vorrei sembrare troppo sarcastico, perché si tratta anche di discussioni serie, documentate, interessanti davvero. Ci sono deputati che ci credono sinceramente, spaccano il capello in venti, presentano dossier alti così. Ma comunque, sappiamo che non avranno alcun riflesso o quasi. Come dire: sono delle gran pippe.

Compito fondamentale dei componenti di Commissione resta comunque di fornire pareri sui vari progetti di legge. Prima considerazione: a noi peones, come dobbiamo votare sulle questioni un minimo significative ce lo dice il partito, il segretario, che della cosa ha già discusso in altra sede, con gli altri pezzi grossi. Ma il nostro parere — favorevole o contrario — lo dobbiamo comunque motivare, e per iscritto. Lo schema è più o meno sempre lo stesso: di tuo, ci metti la frase di circostanza, «dichiaro voto favorevole» se sei nel centrosinistra, oppure «dichiaro voto contrario» se sei nel centrodestra. Poi c’è da corredare il tutto con riferimenti normativi e rimandi a leggi e regolamenti. E allora cosa fai? Siccome sai che il tal giorno si voterà sulla tal proposta, tu vai all’ufficio della Commissione stessa, o a quello del gruppo parlamentare, spieghi la questione e fai fare tutto a loro, che poi ti riconsegnano il plico. A quel punto, non ti resta che cambiare una virgola di qui, inserire un inciso di là, e al momento della chiamata consegni. Un po’ come i vecchi compiti in classe, con la differenza che qui è consigliabile copiare.

Riassumendo: come votare lo decide il partito, il resto se lo vedono gli uffici. A te non resta che alzare la mano e passare le carte. Datemi pure del disfattista, ma dopo un po’ non ci sono più andato.

Perché è proprio la consapevolezza della tua completa inutilità, che ti distrugge. Hai la sensazione di non poter fare nulla o quasi, sei un dito che all’occorrenza deve premere il bottone prestabilito, e se non ci sei fa lo stesso, tanto il bottone per te lo schiaccia qualcun altro. E non è che m’invento, prendete lo stimatissimo e sempre impeccabile Antonio Polito, che adesso ha mollato la poltrona in Senato ed è tornato a fare il giornalista, anche lui dice che «o sei un soldatino o passi per traditore, solo il governo fa le leggi, i parlamentari devono obbedire senza discutere».

Sul divanetto con Romano

Una frustrazione che aumenta col passare del tempo, e aldilà delle convinzioni politiche, comprendi le persone come Turigliatto e affini, che a un certo punto mandano al diavolo le «logiche di coalizione» e votano secondo coscienza, e succeda quello che deve succedere. Ricordo il mio primo incontro con Prodi: io fresco di elezione, lo fermo in corridoio, «Presidente, posso rubarle un minuto?».

Lui guarda l’orologio: «Va bene».

«Ci mettiamo lì?».

«Perfetto».

E ci appartiamo su un divanetto di Montecitorio.

Gli parlo del problema del cumulo dei redditi tra moglie e marito ai fini della pensione, una delle tante ingiustizie italiane, in campagna elettorale ci avevo puntato parecchio. Portavo con me una lettera di una coppia milanese che aveva deciso di separarsi, ma solo sulla carta, per riuscire a ottenere una pensione dignitosa per tutti e due. La tiro fuori e gliela leggo. Lui mi ascolta e sfodera l’espressione che l’ha reso famoso, gli occhi chiusi, le mani giunte, in realtà mi sorge il dubbio che stia per prendere sonno. Alla fine della mia appassionata esposizione, lui annuisce, e non so se avete presente la sensazione, anzi la certezza, quando sai di aver di fronte uno che non ha ascoltato una sola parola di quello che hai detto. Mi alzo, lo ringrazio e me ne vado imbarazzato, accorgendomi che nel frattempo un’altra decina di questuanti si è lì radunata ad aspettare il proprio turno. Per addormentarlo definitivamente.

Fine della seconda puntata


2 commenti su “Papponi di Stato – Parte seconda
  1. utente anonimo ha detto:

    La storia faceva parte di quelle facevano brividi per gli italiani per bene,perché non è normale come si potrebbe costatare in questo Blog,ho bussato “le porte degli uffici degli operatori dello stato, le sedi istituzionali, segreterie” dei partiti e redazioni dei giornali sperando che qualcuno faccia la cosa giusta, ma sono rimasto deluso,perché gli operatori dello stato che mi perseguitavano sono riusciti a “contenere la vicenda tra gli amici” e farmi terra bruciata in questa città per evitare di rimettersi in discussione nel caso della scoperta della verità che fa male l’iniquità del sistema privato con cui si legittimava questa storia.

    vedi il blog

  2. utente anonimo ha detto:

    roberto poletti sei l’uomo della mia vita sei bellissimo e c’hai due ….. grandi grandi! fai proprio per me! rispondimi alla mia e mail serena.tomassoni@email.it

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