Guerra o pace?


Gli italiani sono in Afghanistan in missione di pace. Bello, vero? Suona molto bene, ma cosa vuol dire esattamente? O meglio, perché ad andare in missione di pace sono soldati armati fino ai denti? Quando uno pensa alla pace pensa a volontari disarmati che portano cibo e medicinali dove mancano, che aiutano a costruire pozzi, che si danno da fare per ricostruire là dove è stato distrutto, mediare là dove c’è conflitto, consolare là dove si soffre e portare gioia là dove il sorriso da troppo tempo si è trasformato in una smorfia di tristezza.

Eppure la nostra missione — anzi, quella dell’ISAF/NATO, con tanto di benedizione da parte dell’ONU — è una missione armata, una missione che vede i nostri soldati contrapposti ai talebani, una missione in cui si uccide e si muore. Dov’è la pace? Qualcuno dice che non c’è, che visto che si muore, visto che si spara, ce ne dobbiamo andare perché non è più una missione di pace ma di guerra. Sembra logico, ma non lo è.

Non lo è perché tutto questo nasce da un’ipocrisia di fondo. Da una parte c’è la consapevolezza della necessità di dover intervenire ad arrestare o quantomeno ad arginare senza indugi una visione integralista dell’Islamismo che vede nella semplice esistenza di valori differenti un nemico da distruggere — e non mi riferisco solo al Cristianesimo o a quelli occidentali, ma anche ai Sunniti o ai Sufi — la consapevolezza che senza un intervento deciso l’Afghanistan si trasformerà in un altro Iran, in un altro Sudan o peggio, dove le donne vengono frustate se indossano i pantaloni e lapidate se commettono adulterio, ai ladri si tagliano le mani, a chi vota “nel modo sbagliato” si mozzano nasi, dita e orecchie, e chi non condivide questa concezione dell’Islam viene semplicemente impiccato, a una gru.

Dall’altra c’è un’interpretazione altrettanto integralista della nostra Costituzione là dove dice «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Perché integralista? Perché la Costituzione parla di ripudiare la guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» e «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ma poi, nello stesso articolo 11, «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Quindi là dove esiste la necessità di garantire la pace e la giustizia, così come di difendersi da un attacco altrui, la guerra rimane un’opzione valida, purché questo venga concordato con altri Stati.

Ma al di là di quale interpretazione si debba dare a quell’articolo della nostra Costituzione, è giusto usare la forza, la violenza, arrivare ad uccidere e parimenti rischiare di rimanere uccisi per portare pace e giustizia in un altro Paese? Facciamo un semplice esempio. Supponiamo che abitiate in un condominio e che sentiate dei rumori fuori dalla porta di casa. Aprite la porta e uscite sul pianerottolo delle scale. La porta della vostra vicina, proprio davanti a voi, è aperta e da lì intravedete un uomo che sta picchiando e cercando di violentare una donna. Riconoscete i due: la donna è la vostra vicina di casa, una ragazza gentile ed educata, l’uomo il suo ex-ragazzo, un tipo poco raccomandabile che aveva l’abitudine di bere. Cosa fate? Rientrate in casa e chiamate il 112? È una possibilità, certo, ma vivete in uno dei tanti quartieri dormitorio della città e sapete benissimo che tra una cosa e l’altra una volante non potrà arrivare prima di dieci o quindici minuti se vi va bene. In quel frattempo l’uomo potrebbe averla anche sgozzata l’ex-fidanzata. Siete un tipo (o una tipa) grosso, magari avete praticato arti marziali e comunque sapete che spesso le persone violente che se la prendono con donne o bambini sono essenzialmente vigliacche. Siete consapevoli di essere in grado di intervenire efficacemente, anche se esiste sempre un certo rischio e comunque difficilmente riuscirete a risolvere la cosa pacificamente. Insomma, se intervenite uno dei due, se non entrambi, dovrà quantomeno farsi dare qualche punto in ospedale. Che fate?

Non so quale sia la vostra risposta. Vi do la mia: io intervengo. Non resto a guardare mentre una donna viene picchiata e violentata. Ma questo vuol dire entrare in casa di qualcun altro — una violazione di confine — mettersi in mezzo in una questione privata — i due erano fidanzati — usare la violenza sostituendosi alle forze di polizia — sostituirsi alla legge. Sia chiaro: si parla di difendere una persona. Non ha nulla a che vedere con il concetto di “farsi giustizia da sè” che implica l’uso della forza per vendicarsi, ovvero dopo che è avvenuto un fatto. Questa è una difesa legittima di terzi, equiparabile alla legittima difesa, anche se non siete voi in pericolo. Lo fareste di sicuro se ad essere aggredita fosse stata vostra moglie (o marito), i vostri figli o comunque una persona cara. Farlo per un conoscente o addirittura un estraneo è solo la logica conseguenza di un impegno sociale più profondo, più rivolto agli altri, ma il principio non cambia.

Ad ogni modo, la vostra missione di soccorso è comunque un’azione violenta. A meno che non siate un maestro d’arti marziali capace di immobilizzare senza troppo sforzo una persona violenta, ci sarà da farsi e da fare male. Questo cosa vuol dire? Che non state aiutando, soccorrendo quella donna? Ovviamente no, certo che lo state facendo! E allora? Allora una cosa è il perché si fa una cosa, un’altra il come. A volte, per fare una cosa “giusta” bisogna farne una “sbagliata”. Questo non vale solo a livello di singolo individuo, ma a qualsiasi livello sociale.

Tornando alla domanda iniziale — tranquilli, non mi sono perso nel frattempo — cosa significa esattamente missione di pace? Il significato è inerente allo scopo della missione, ovvero “garantire la pace”, e non solo agli Afghani, ma a tutti noi, perché il regime talebano non si è limitato a opprimere quel popolo, ma ha sovvenzionato e addestrato i terroristi che hanno massacrato civili innocenti in diversi Paesi. Ma il fatto che una missione sia mirata al raggiungimento della pace non vuol dire che per ottenere tale scopo non si debba combattere, perché è questa quell’ipocrisia di fondo della quale ho parlato prima. Se bastasse andar lì e parlare di pace ed aiutare la gente, ci saremmo andati disarmati, senza fucili ed elmetti, elicotteri e cingolati. Ma se lo avessimo fatto avremmo contato molti più morti e molto prima, perché coloro che stiamo combattendo non hanno alcun scrupolo ad ammazzare civili disarmati; non hanno alcun scrupolo ad uccidere persino uomini, donne e bambini del loro stesso popolo. Questa è una realtà che voler ignorare non è solo ipocrita ma criminale, esattamente come se il vicino di casa di cui sopra non intervenisse giustificandosi poi con un «ma io ho chiamato la Polizia» o peggio ancora «non erano mica fatti miei, era una questione privata».

Certo, qualcuno potrebbe affermare che è un’altra cosa, che quello che vale per un tentativo di stupro non vale, ad esempio, per una pulizia etnica come quelle avvenute in Bosnia o che ancora avvengono in tanti Paesi africani. Qualcuno potrebbe tirare in ballo il Principio di Sovranità Nazionale e l’Autodeterminazione dei Popoli. Ma cosa sono, esattamente? Il principio di sovranità nazionale vede le sue origini all’epoca dei grandi imperi coloniali, dove le potenze occidentali sfruttavano vergognosamente i cosiddetti “popoli inferiori”, soprattutto in Africa e in Asia, ma non solo. A quell’epoca, per poter fare ognuno il bello e il cattivo tempo nelle rispettive aree di influenza, si inventò un principio che altro non era se non un accordo di non interferenza, ovvero un patto che permetteva a ogni potenza coloniale di massacrare e sfruttare a piacimento senza che altri potessero intervenire. Non che all’epoca ci fossero molti movimenti per i diritti umani, in verità, ma anche quando si è sviluppata una consapevolezza sociale che ha portato individui e popoli a maturare un’etica sociale a livello globale, il meccanismo di non interferenza è sostanzialmente rimasto lo stesso. Pensate all’invasione della Cecoslovacchia da parte dei Russi o all’embargo degli USA nei confronti di Cuba.

In quanto all’autodeterminazione dei popoli è una cosa molta bella, ma bisogna che il popolo sia in grado di fare le proprie scelte, cosa un tantino difficile quando si vive in un sistema autoritario se non addirittura totalitario. Prima di parlare di autodeterminazione, quindi, bisognerebbe porsi il problema di come garantirla. Quando dall’altra parte c’è qualcuno che non ha nessuna intenzione di scollarsi dalla poltrona su cui si piazzato, forte magari di un esercito o di forze di polizia a lui fedeli, allora la scelta è obbligata: combattere. D’altra parte, le grandi rivoluzioni avvenute dal XVII al XX secolo non erano forse lotte per la libertà? E non è stata una guerra per la libertà quella dei partigiani? Se l’uso della forza fosse incompatibile con la ricerca della libertà, della pace, della giustizia, non dovremmo condannare anche chi ha combattuto il nazismo? È chiaro che no.

Tornando all’Afghanistan, ho detto che siamo lì in missione di pace e credo di aver dimostrato come questo non implichi necessariamente che non si debba usare la forza, ma si potrebbe anche ribattere che ci si dovrebbe quantomeno limitare a difendersi. Si tratta di una critica che nasce dalla mancanza di conoscenza di quella che nei secoli è stata chiamata “l’Arte della Guerra”. Il punto è che, una volta stabilito che è necessario usare la forza, è evidente che ci si deve anche assicurare che tale utilizzo serva a qualcosa. Riprendiamo l’esempio dello stupro: se ad attaccare la ragazza fosse stato un branco di una decina di ragazzi muscolosi e bene in forma mentre il nostro povero vicino fosse stato un tipino tutto pelle ed ossa, un suo intervento probabilmente gli avrebbe procurato una medaglia al valore… ma alla memoria, per giunta senza impedire con il suo “eroismo” la violenza in questione. Se si decide di agire al fine di raggiungere uno scopo, bisogna essere sicuri di avere una ragionevole possibilità di riuscirci. Questo — potrà non piacervi — vale anche per la guerra.

Ecco allora che pensare di poter intraprendere quella che a tutti gli effetti è una vera guerra con le regole di ingaggio che il Parlamento, proprio a causa di quell’ipocrisia e di quella visione integralista della Costituzione di cui ho parlato prima, ha stabilito per i nostri soldati, vuol dire in realtà mandarli al macello. I nostri ragazzi non sono stati uccisi dai Talebani: sono stati uccisi dalla nostra ipocrisia. Una guerra può servire a portare la pace, può addirittura essere difensiva, come ad esempio quando si contrasta una forza di invasione, ma questo non vuol dire che la strategia e le tattiche da applicare debbano essere solamente difensive. Una guerra va combattuta usando le strategie e le tattiche più idonee a vincerla, e questo implica anche attaccare. Avete mai visto quelle partite di calcio in cui una squadra, forte del risultato dell’andata, si chiude a catenaccio e rinuncia ad attaccare per adottare una tattica esclusivamente difensiva? Beh, spesso e volentieri finisce per perdere l’incontro di ritorno, qualche volta così malamente da venire persino eliminata dal torneo.

La conclusione è semplice: si può dover combattere per guadagnarsi la pace, e se lo si fa, lo si deve fare come va fatto, ovvero facendo tutto ciò che è ragionevole fare per vincere. Questo vuol dire combattere il nemico rispettando tuttavia la Convenzione di Ginevra, vuol dire usare solo armi convenzionali e adottare regole d’ingaggio protettive della popolazione civile, ovviamente — cosa che purtroppo non tutti fanno, anche nella coalizione ISAF/NATO — ma non vuol dire farsi ammazzare perché non si può sparare per primi, non vuol dire attendere l’attacco chiudendosi in una caserma col rischio di saltare in aria. Una volta garantita la popolazione civile, le regole d’ingaggio devono garantire prima di tutto i nostri soldati, non certo l’avversario.

Un’ultima considerazione. Una critica che a volte viene fatta alla missione in Afghanistan è che esistono molti altri Paesi dove il popolo è oppresso che vengono tuttavia ignorati perché non abbastanza “interessanti” dal punto di vista geopolitico. Perché non si interviene anche lì con “missioni di pace”? Ovviamente la risposta è semplice: i Paesi cosiddetti “ricchi” non intervengono spendendo un’ingente quantità di denaro per proteggere i popoli oppressi, ma in primis se stessi e solo secondariamente coloro che affermano di voler aiutare. Anche questa è quindi in parte un’ipocrisia, se vogliamo essere davvero onesti con noi stessi. In effetti, siamo in Afghanistan prima di tutto per proteggere noi stessi dalla possibilità che le dottrine sciite e wahabite, che rappresentano meno del 20% dei musulmani nel mondo, prendano piede e trasformino sempre più determinati Paesi in potenziali vivai per gruppi terroristici integralisti. È sbagliato? No, direi di no, ma su una cosa sono d’accordo con la critica precedente e questo perché comunque per me vale ancora quanto detto in precedenza in relazione all’esempio dello stupro, ovvero: sì, dovremmo intervenire anche in quei Paesi, in Africa, in Asia, in Sudamerica, ovunque la gente è oppressa, torturata, uccisa anche solo per aver protestato. Ovunque i diritti umani sono calpestati e dove le libertà sono negate dovremmo intervenire perché chi opprime non ha il diritto di invocare il principio di sovranità nazionale o qualunque altro principio che lo autorizzi a tiranneggiare il popolo. Quindi semmai, di missioni di pace ce ne sono davvero troppo poche.


4 commenti su “Guerra o pace?
  1. utente anonimo ha detto:

    Le cossiddette “Missioni di pace” dell’ONU” non sono missioni umanitarie come il senso comune farebbe pensare. Tecnicamente si chiamano missioni di PEACE KEEPING: Missioni di mantenimento della pace.
    Quando l’ONU manda delle forze armate per mantenere la pace significa che nel paese ci sono tensioni pericolose e che l’incolumità dell gente comune (civili) è in pericolo. Nonostante a livello politico interno e internazionale ci si auspichi la pace, in quel posto ancora troppo forti sono queste tensioni e troppo alto il rischio. E’ per questo motivo che l’ONU invia l’esercito per una missione che non è umanitaria (anche se i fini sono quelli) ma una MISSIONE ARMATA PER IL MANTENIMENTO DELLA PACE (imposizione della pace con le armi e prevenzione di incidenti e attentati tanto tipici nei luoghi caldi del mondo, in cui le guerre, spesso guerre civili, si combattono non tra eserciti ma tra gruppi disorganizzati, spesso attraverso attentati).
    La pace viene imposta con le armi: sembra un controsenso ma non lo è. E’ nell’interesse stesso della popolazione.
    Queste situazioni sono però di solito transitorie. Vedi ad esempio la Missione ONU in Mozambico 1993/1994 alla quale ha partecipato l’esercito italiano (con i militari di leva). Si trattava di garantire l’incolumità dei civili e la sicurezza degli scambi economici (messe a repentaglio nei 20 anni precedenti di guerra civile) e di prevenire atti di sabotaggio o attentati. L’esercito era armato e organizzato (viaggiavamo in mezzi blindati pattugliando il territorio. lo so perché c’ero anch’io). Questo è durato due anni, fino alle prime elezioni libere di quel paese, dopo di che il braccio armato dell’ONU (l’esercito internazionale) ha lasciato il Paese.

  2. utente anonimo ha detto:

    Grande articolo, Dario!

    Mi piace molto.

    Saluti dalla Germania :-)!

  3. utente anonimo ha detto:

    L’articolo di Dario è bellissimo e denota conoscenze storico/politiche, oltre che profonde capacità riflessive. Il commento n° 1 del 25 settembre invece è molto utile per capire il problema, visto che ha origine da un’esperienza diretta, è molto chiaro e per me si tratta di considerazioni che mi arricchiscono. E’ difficile quindi aggiungere nuovi elementi alle vostre analisi, ma mi pongo solo una domanda: da che mondo è mondo ogni guerra ha origine anche da interessi economici, soprattuto se intervengono potenze più ricche di quelle belligeranti in un qualsiasi Afghanistan. Se non erro nella zona di cui si sta trattando vi sono impianti ENI da proteggere, in Iraq vi sono giacimenti petroliferi…..insomma la mia impressione è che ove interviene qualche Potenza esterna vi siano di mezzo altri scopi meno nobili. Mi domando inoltre chi rifornisca di armi ed esplosivi le parti locali belligeranti, in genere povere in canna e senza soldi (palestinesi per esempio), magari imprese che fabbricano arimi e che hanno sede negli USA o altri Stati “progrediti” che parlano tanto di voler la Pace. Tra l’altro, se non erro i Talebani stessi (nonchè Saddam Hussein) a suo tempo e in altre situazioni politiche erano considerati “amici” dagli USA stessi, forse perchè in passato c’erano altri interessi in gioco. Insomma, senza nulla togliere alle particolari circostanze “antiterroristiche” della Guerra in Afghanistan (mi permetto di definire così direttamente l’intervento alleato in quella zona) o all’evidente “antinazismo” della seconda guerra mondiale, ho l’impressione che in ogni guerra ci sia qualcuno interessato a farle sorgere e durare, secondo logiche che noi comuni mortali non consciamo e su cui all’opinione pubblica non viene riferito niente. In Africa poi non si interviene per ragioni risalenti al colonialismo citato da Dario. Se uno va a guardare in un atlante storico la cartina dell’Africa del XIX secolo, potrà vedere che non c’era angolo che non fosse occupato da Europei. Le risorse naturali (intendo minerarie ed altro) del continente erano e sono enormi, prima dell’arrivo degli europei l’Africa non era così povera e morta di fame come oggi, ma vi erano anzi una serie di “regni” che commerciavano tra di loro e anche con l’oceano indiano (la faccio breve ovviamente), sfruttando con i mezzi che avevano le proprie risorse. Gli Europei coi loro mezzi enormi hanno occupato/colonizzato dove volevano, salvo poi andarsene “formalmente” dal Continente, ma lasciando sul posto governi locali in mano a dittatori pagati e spietati, nonchè le rispettive Multinazionali, il tutto a tutela ancora oggi dei propri interessi. Quindi: gli Africani muoiono di fame pur avendo in loco enormi risorse, di cui si avvantaggiano altri e non loro. Per concludere: la Guerra in quanto tale è brutta proprio perchè alimentata spesso e volentieri dagli interessi di pochi sulla pelle dei tanti civili coinvolti; Bin Laden stesso, del resto, dispone di enormi ricchezze, è un grosso finanziere prima che leader musulmano (e di quest’ultima “qualità religiosa” ho forti dubbi) e chissà per quale reale motivo scatenò l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001. Claudio Severini

  4. Avatar photo Dario de Judicibus ha detto:

    Ottimo commento, Claudio. Certamente gli interessi economici, oltre che quelli geopolitici, sono un fattore chiave nel decidere se e dove intervenire. La domanda da porci tuttavia è: sono sempre anche la ragione prima di tale scelta, oppure un ulteriore fattore motivante? A mio avviso dipende caso per caso. Ad esempio, la Prima Guerra del Golfo era a mio avviso primariamente originata da questioni di carattere economico, quella in Afghanistan o in Sudan hanno principalmente motivazioni geopolitiche.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*