Razzismo, sessimo, discriminazioni di ogni genere hanno caratterizzato la storia della specie umana. Ancora oggi termini come sionismo, antisionismo, maschilismo e femminismo fanno discutere, per non parlare di tutte le forme di integralismo religioso che hanno caratterizzato spesso in passato le varie fedi e che in parte sono tuttora presenti nella maggior parte delle religioni maggiori, prime fra tutte l’islamismo e il cattolicesimo. Anche movimenti nati per combattere la discriminazione, come il femminismo, in molti casi hanno visto nascere correnti che sono diventate a loro volta discriminatorie, tanto che oggi esiste un movimento che ripropone la «questione maschile» in un’ottica di pari opportunità là dove un certo tipo di femminismo è diventato di fatto «il Maschilismo del Terzo Millennio».
All’origine di tutte queste forme di discriminazione sembra esserci soprattutto ignoranza, intolleranza e spesso un represso senso di inferiorità che fa cercare negli altri un motivo di ritenerli appunto “inferiori”, il tutto solo per il disperato bisogno di sentirci “superiori”. Tuttavia, sebbene tutti questi fattori concorrano sicuramente — assieme a molti altri, ovviamente, in genere culturali o sociali e quindi legati a un certo territorio o a una certa etnia — a sviluppare e rafforzare in un gruppo di individui una qualche forma di discriminazione verso un altro gruppo di individui, le varie forme di intolleranza sociale e religiosa hanno una matrice comune che spesso sfugge a un’analisi superficiale.
Molto spesso, infatti, quando si sente discutere di maschilismo o di antisionismo, ci si ferma a un’analisi storica e sociale prettamente contingente, legata a elementi culturali specifici e quindi settoriali. Spesso, inoltre, si cercano le ragioni o i torti, si cerca cioè di razionalizzare le argomentazioni portate dalle varie parti per giustificare la loro posizione. Si dà parimenti un giudizio morale a tali argomentazioni il quale spesso, a sua volta, è influenzato da fattori contingenti. Ad esempio, chi oggi volesse fare un’analisi critica del femminismo che ne volesse evidenziare limiti o torti, si ritroverebbe tacciato di «maschilismo revisionista» e quindi verrebbe di fatto a sua volta discriminato, ovvero, non attaccato per i contenuti delle sue argomentazioni ma per il semplice fatto di aver voluto argomentare.
Il dibattito diventerebbe addirittura incandescente se il discorso si spostasse su intolleranze religiose o cosiddette “razziali”. Un esempio lo abbiamo avuto qualche tempo fa quando un sondaggio commissionato dalla Commissione dell’Unione Europea rilevò come la maggior parte dei cittadini dell’Unione ritenessero «Israele la principale minaccia alla pace». Si gridò allo scandalo e lo Stato Ebraico accusò la società che aveva fatto il sondaggio di avere formulato la domanda su Israele «in modo tendenzioso».
Tuttavia, se fossimo andati ad analizzare il questionario, avremmo solamente trovato che una delle domande invitava gli intervistati a scegliere tra quattro gradi di minaccia per la pace, da «molto forte» a «nessuna», in una lista di dodici Paesi tra i quali figuravano, fra gli altri, Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Corea del Nord, Iran, Iraq, Afghanistan, Israele, Pakistan e India. E Israele risultò essere al primo posto, seguito da Corea del Nord, Iran, Iraq, Afghanistan e Stati Uniti, più o meno nell’ordine.
Il Ministro per le Comunità Ebraiche nella Diaspora, Nathan Sharansky, arrivò ad affermare che il fatto che la maggioranza degli europei vedesse Israele come il pericolo maggiore per la pace nel mondo, e non gli Stati che finanziavano il terrorismo o i dittatori che minacciavano di usare armi di distruzione di massa, fosse un’altra prova che dietro alle critiche politiche a Israele ci fosse solo puro antisemitismo. In pratica un giudizio sulla politica di uno specifico governo di uno specifico Stato era stato interpretato come un revanscismo dell’antisemitismo nazista in un’Europa ben diversa da quella della prima metà del XX secolo.
Questo giusto per evidenziare quanto sia difficile discutere serenamente di determinate questioni quando esse sono storicamente associate a discriminazioni inflitte o subite.
Ma qual’è questo elemento comune a tutte le forme di discriminazione che viene spesso ignorato così il dibattito finisca per focalizzarsi solo sugli aspetti più evidenti della discriminazione, quelli cioè che spesso coinvolgono le masse al più basso livello piuttosto che i capi, ovvero coloro che realmente fomentano tali comportamenti intolleranti?
Il punto è proprio in quella suddivisione fra chi guida e chi è guidato. L’elemento in questione è infatti «il Potere».
Vediamo di dimostrarlo con un piccolo esempio. Si tratta solo di una specie di gioco, dato che ogni territorio e ogni cultura ha forme di discriminazioni differenti e comunque in misura maggiore o minore rispetto ad altri territori e ad altre culture.
Prendiamo la specie umana, ovvero circa 6 miliardi di individui. Iniziamo ad affermare che le donne sono inferiori. Dato che sono poco più della metà della popolazione del pianeta Terra, rimaniamo con 3 miliardi di individui. A questo punto eliminiamo tutti coloro che non sono bianchi, poi tutti quelli che non credono in Dio, poi tutti quelli che non credono in un certo Dio, quelli che “non sono perbene”, quelli che non sono belli, che non hanno un fisico perfetto, che non hanno avuto successo nella vita, che non fanno parte “di un certo giro”… Alla fine chi rimarrà? Poche migliaia di persone in tutto il mondo, «quelli che contano», quelli che gestiscono la maggior parte delle risorse e delle ricchezze del Pianeta.
In realtà la faccenda è un po’ più complessa di così, perché a tutti i livelli qualcuno discrimina qualcun altro per mantenere la propria fetta di potere a quel livello, e a volte persino chi è stato discriminato si ritrova a discriminare altri, anzi, spesso la discriminazione è una sorta di pendolo che oscilla da un estremo all’altro passando il più velocemente possibile per il punto centrale, ovvero la moderazione. Comunque, per quanto la realtà sia più articolata il discorso non cambia: il vero e più profondo motivo che sta alla base di qualsiasi tipo di discriminazione è il potere. Chi è discriminato è infatti tagliato fuori dal vero potere, è un concorrente in meno, e tanto più futile e insignificante è il motivo della discriminazione, tanto meglio è. Discriminare un analfabeta o un ignorante vorrebbe dire infatti eliminare un concorrente al potere poco temibile, ma discriminare qualcuno in base al colore della pelle, al sesso, all’orientamento sessuale o alla religione vuol dire eliminare dal gioco moltissimi individui in gamba, avversari potenzialmente pericolosi. Inoltre tutti quelli che discriminano qualcun altro a basso livello sono anch’essi tutti avversari che restano fuori dal gioco “serio”, perché si accontentano di qualche briciola di potere lasciando il piatto forte ai pochi che restano.
Ma che succederebbe se si iniziassero a valutare le persone per quello che veramente valgono e non per quello che sono o peggio ancora che appaiono? Che succederebbe se a ricevere di più fossero coloro che effettivamente danno di più agli altri? Provate a immaginare un maestro di scuola o un medico volontario in Africa che guadagnano più di un calciatore professionista o un presentatore televisivo, oppure un bravo muratore o un giovane ricercatore che vengono apprezzati più di un Presidente di Tribunale o un Preside di Facoltà con agganci influenti in politica.
Fantascienza, pura fantascienza. Non succederà mai, lo sappiamo. Eppure adesso sappiamo anche che se tutto ciò non succederà è anche perché anche noi, tutti noi, siamo incastrati in questa cultura di discriminazione che fa il gioco di pochi a scapito di tutti. Ricordiamocelo la prossima volta che ci verrà da pensare che «i meridionali sono tutti scansafatiche», che «i maschi sono tutti porci», che «le donne sono tutte puttane» o che «i negri sono tutti dei delinquenti». Cerchiamo di fare mente locale e domandiamoci subito dopo: «Ma alla fine, chi ci guadagna veramente se io la penso così?»
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