Gabriele Linari e Andrea Vaccarella


Un palcoscenico scarno, personaggi sperduti, in attesa, un titolo emblematico e misterioso, «Eros». È questo che propone, al Metateatro di Roma, Gabriele Linari, giovane ed emergente regista. Linari ha costruito uno spettacolo di grande intensità in cui si intrecciano le vite di cinque personaggi che potrebbero trovarsi in ogni luogo: una zattera? Una stazione? O un luogo qualunque dove contano le aspettative, la ricerca, la sospensione. Ognuno di loro sembra raccontare un aspetto dell’essere umano verso Eros, il dio dell’amore erotico, nell’incontro con l’altro nell’anima e nel corpo. Un gruppo di autori (Linari, Marco Andreoli e Fabio Massimo Franceschelli) ben strutturato fa raccontare ad ogni personaggio l’Eros introiettato e immerso in un inconscio sociale: la donna romantica allegra e timorosa; la donna chiusa nel proprio narcisismo che si basta nell’amore per se stessa; l’uomo entusiasta dell’amore, ma terrorizzato dalla consapevolezza di non potere, e forse non volere, colmare tutte le infelicità, le mancanze, i timori dell’altro. E ancora una donna che racconta la sofferenza e lo stupore nella mancanza di dolore, inesorabilmente legati al cibo. E un altro uomo inquieto e bramoso di partire, nell’illusione che altrove ci sarà una donna ad aspettarlo e in quell’altrove troverà la felicità. Amori incrociati, allontanati, voluti, immaginati e temuti. Un linguaggio, quello scelto da Linari, attento al contenuto e mai banale nello stile. Incontriamo il regista e uno degli attori, Andrea Vaccarella.

Linari, perché ha scelto di mettere in scena Eros, un dio frainteso dai più?

Perché Eros è il nome che diamo, coscientemente o no, a qualcosa che in un modo o nell’altro spinge le nostre vite, cambia di continuo la nostra prospettiva e governa le nostre relazioni. Eros non è dunque — in questo caso specifico — solamente l’Amore quanto piuttosto una cifra della nostra esistenza e, quindi, un pretesto per analizzare a che punto siamo con le nostre vite, per capire se siamo veramente animali sociali o ancora bestie in cerca di qualcosa.

Ha proposto cinque personaggi alla ricerca della felicità, del riempimento, ma pervasi anche dalla paura. È questa secondo lei la realtà?

Credo di sì, senza facili pessimismi o semplificazioni ottimistiche. Mi guardo intorno e vedo che un po’ tutti vaghiamo, corriamo più forte dei nostri bisogni e li lasciamo indietro. I cinque personaggi sono un po’ questo: hanno corso troppo e sono arrivati troppo presto nell’ultima stanza (di qualsiasi cosa si tratti) e si ritrovano un po’ sperduti, con addosso gli abiti di ciò che sono, ma con poca chiarezza su ciò che sentono o che vogliono. Credo sia questa la ragione del senso di solitudine.

Perché ha voluto di rappresentare soltanto l’eros tra uomo e donna, quindi eterosessuale?

Devo dire che non è stata una scelta, è semplicemente successo. Ho messo in scena alcune icone facilmente disponibili e questo forse ha fatto sì che rimanesse in parte escluso un argomento purtroppo non ancora del tutto alla mano. È chiaro che per noi tutto ciò che esce fuori dallo spettacolo riguarda la condizione umana tutta, senza esclusione.

In scena colpisce l’attesa come sentimento imprescindibile dall’Eros. È così?

Senza dubbio. L’Eros è l’attesa: attesa dell’altro, attesa di una risposta, attesa di qualcosa che sblocchi la situazione. È sempre la speranza in qualcosa di migliore, in una soluzione per se stessi. In questo c’è molto di tragico e molta speranza al tempo stesso. Certo l’attesa che noi mettiamo in scena è spasmodica, compulsiva, “iconografica”. Sul finale si trasforma in attesa di “Dio”, inteso non come figura strettamente religiosa ma come “l’inconoscibile”, l’atteso per eccellenza.

Lei fa dire ad un suo personaggio che un’emozione, un sentimento, non possono esistere senza una definizione verbale. Quanto conta la parola nella sua idea di teatro?

La parola è sempre stata importante al pari del corpo. Quest’ultimo sta attirando maggiormente l’attenzione della nostra compagnia, ma rimane la parola il grande e meraviglioso “problema”. Basti pensare che il nostro autore cardine è stato (ed è) Ennio Flaiano, parola allo stato puro. Tuttavia è il corpo che sale sull’altare sacrificale del teatro. Le due cose vanno di pari passo, cerchiamo di tormentarci con gioia su tutt’e due.

Prossimi progetti?

Stiamo preparando uno studio su «Caccia allo Snualo» di Lewis Carroll, ancora una volta una tema di corpi e di parole. Si tratterà di uno studio sul concetto del “morire” come deriva, metafora marittima. Una sorta di terzo capitolo della trilogia ideale iniziata sul sesso con «PESTE: 1918» (lo studio su Schiele, Freud, Musil) e «KAFKA», proseguita con «EROS» e che si concluderà con questa riflessione sulla fine di tutto. Carroll ci permetterà un approccio visionario e leggero. Il titolo dovrebbe essere «The vanishing».

Vaccarella, cosa ha significato per lei lavorare su questo testo?

Prima di tutto a mettermi completamente in discussione come attore per affrontare dei testi che richiedevano una grande naturalezza interpretativa. È stato interessante affrontare un testo scritto a più mani e scoprire le innumerevoli aderenze intellettuali che legavano i tre autori: un unico flusso che riesce ad indagare con grande raffinatezza le molteplici sfumature dell’eros.

Quali sono state le difficoltà?

Non poche. Il lavoro si è sviluppato in due fasi: la prima legata all’improvvisazione per trovare le relazioni che si instaurano nei rapporti amorosi, la seconda di analisi dei testi e relativa messa in scena. Nella prima è stato l’ormai decennale rapporto con Linari a facilitarmi la comprensione delle sue richieste e probabilmente anche la possibilità di essere propositivo nella ricerca delle azioni sceniche e della simbologia. Nella seconda fase la richiesta di naturalezza interpretativa si è scontrata con la mia impostazione formalistica che ha rallentato il mio lavoro tanto da farmi raggiungere risultati soddisfacenti soltanto negli ultimissimi giorni.

Lei si trova spesso a lavorare con Linari, per quale comunanza?

Linari, altri quattro attori ed io abbiamo fondato la compagnia teatrale LABit nel 2001 eleggendo Gabriele non solo direttore artistico, ma vera e propria guida per la formazione di un’estetica immediatamente riconoscibile. Ciò che mi ha subito convinto del suo lavoro è l’idea di teatro come urgenza: fare teatro non è soltanto una necessità artistica, ma un bisogno primario, un’esigenza vitale, una ricerca di espressione paragonabile a quella del primitivo di fronte ai suoi simili: li riconosce come interlocutori senza poterne, però, condividere un codice, un linguaggio. La sua opera si muove in questa direzione: una continua ricerca di una forma espressiva autentica, mai banale e retorica. Le sue ultime produzioni hanno abbandonato un’istanza narrativa cui potersi appoggiare o trovare conforto, perché la sua riflessione si sta spostando sul linguaggio, sull’incontro allo stato puro (tra attori in scena e tra questi e il pubblico), sull’ontologia del teatro, sulla filosofia che lo governa in ogni sua forma. Credo che fra qualche anno, se tutto andrà bene, verrà senz’altro riconosciuto come uno dei più grandi talenti del nostro paese.

Quale personaggio le piacerebbe interpretare?

Sono affascinato da Leonardo in «Nozze di Sangue» di G. Lorca e Kostja ne «Il Gabbiano» di Čechov. Entrambi vittime di un amore troppo grande da sopportare, il primo (Leonardo) attraversa questo amore a costo della propria vita, il secondo si rassegna di fronte all’amore non corrisposto fino a togliersi la vita. Convergono verso uno stesso epilogo, ma attraverso un cammino differente.

Ha mai pensato di lavorare al cinema?

Magari! Il problema è che in Italia per lavorare al cinema devi saper ungere determinati canali e curare bene le pubbliche relazioni. E io sono soltanto un attore.


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