Vi interessa conoscere un metodo semplice semplice per non pagare in nero un vostro collaboratore senza tuttavia doverlo assumere regolarmente e quindi dover poi corrispondere anche i contributi e tutti i relativi oneri fiscali? Presto detto: basta semplicemente aprire un conto corrente cointestato, ovvero intestato a entrambi, sul quale ogni mese verserete quanto pattuito. A questo punto sarà sufficiente trasferire tramite bonifico bancario le mensilità in oggetto su un altro conto corrente, questa volta intestato solo al vostro collaboratore e fiscalmente sarete a posto.
Specialmente oggi, che è possibile fare tutto ciò senza muoversi da casa, ovvero attraverso la rete, un simile metodo è davvero alla portata di tutti. Peccato che in realtà, se la Guardia di Finanza dovesse scoprire la cosa, potrebbe accusarvi di “abuso di diritto”, ovvero di aver inscenato questo giro di denaro al fine di eludere le tasse.
Ma cos’è l’abuso di diritto? Vediamo come lo definisce Wikipedia:
Con l’espressione abuso del diritto si indica il superamento del cosiddetto limite interno all’esercizio del diritto soggettivo. L’esercizio del diritto soggettivo, oltre che dal contenuto di questo, stabilito dall’ordinamento (limite esterno o elemento formale), è limitato dalla necessità che persegua effettivamente l’interesse a tutela del quale il diritto è stato attribuito (limite interno, detto anche elemento sostanziale o funzionale). Il superamento del limite interno è, appunto, l’abuso di diritto, mentre l’eccesso di diritto è il superamento del limite esterno.
Troppo complicato? Vediamo di spiegarlo in termini semplici. Incominciamo con lo spiegare cos’è il diritto soggettivo. In giurisprudenza si usa questo termine per indicare una posizione soggettiva di vantaggio che l’ordinamento giuridico riconosce automaticamente all’individuo e tutela in modo diretto. Sono diritti soggettivi tutte le varie forme di “libertà”, come la libertà di esprimere il proprio pensiero, la libertà di stampa o di religione, il diritto di proprietà, tanto per citarne alcuni.
È evidente che un diritto soggettivo non possa essere assoluto ma debba avere dei limiti. Ad esempio, io ho il diritto di possedere una casa ma non certo quello di possedere un’altra persona. Analogamente, la libertà di parola non può essere usata per offendere pesantemente se non addirittura diffamare un’altra persona. È dunque evidente che debbano esistere dei confini. In effetti ce ne sono due: il limite esterno e quello interno.
Tali limiti sono relativi all’esercizio del diritto, ovvero all’esplicazione del comportamento che ne costituisce il contenuto, comportamento che può configurarsi o meno come atto giuridico. Parlare in pubblico rappresenta quindi l’esercizio del diritto di parola; pubblicare un articolo, quale ad esempio quello che state leggendo ora, è l’esplicazione del diritto di stampa.
Ora, il limite esterno rappresenta di fatto quel limite che discende dal confronto con altri interessi, principi e valori concorrenti. Ad esempio, non posso possedere un’altra persona perché contrasterei con il diritto di questa di essere libera, ovvero di non essere proprietà di qualcuno. Ne consegue un limite all’esercizio del mio diritto di proprietà. Abbiamo in sostanza quel bilanciamento dei diritti che spesso viene, nel linguaggio comune, citato con «i diritti dell’uno finiscono dove iniziano quelli dell’altro».
Il limite interno è invece un po’ più complesso e nasce dal fatto che a volte, esercitare un diritto, può dare un potere che trascende i motivi per i quali quel diritto è stato definito. Ad esempio, è chiaramente un mio diritto fare in casa mia tutto quello che voglio, ma se ogni giorno alle sei di mattina facessi l’alza bandiera in giardino con tanto di tromba e rullo di tamburi, probabilmente i vicini potrebbero protestare e ne avrebbero tutte le ragioni, per quanto patriottico possa essere il mio gesto. Se poi è chiaro che lo sto facendo proprio per dare fastidio ai vicini, allora possiamo davvero ipotizzare un classico abuso di diritto.
Se continuiamo a leggere su Wikipedia l’articolo sull’abuso di diritto, è anche scritto anche che:
Nell’ordinamento italiano non si rinviene alcuna norma a carattere generale che vieti l’abuso del diritto. Vi sono, però, alcune norme nel campo dei diritti reali che disciplinano casi particolari di abuso: l’esempio più noto è rappresentato dall’art. 833 c.c. che vieta al proprietario di un fondo di compiere atti emulativi, cioè quegli atti, pure rientranti nelle facoltà del proprietario, che non abbiano altro scopo se non quello di nuocere o recar molestia al proprio vicino.
La questione dell’abuso di diritto è quindi abbastanza delicata. In realtà non è possibile definire in modo chiaro un certo atto come abuso di diritto in sé, quanto si devono considerare le varie situazioni volta per volta. È quindi più materia di Giurisprudenza che di Legge vera e propria. Sempre citando Wikipedia:
In materia tributaria, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, con la sentenza del 13 maggio 2009 n.10981, ha affermato che «il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati, nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge stessa, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.
Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione».
Risulta quindi chiaro adesso perché il trucchetto proposto all’inizio di questo articolo sia da considerare a tutti gli effetti un abuso di diritto e quindi perseguibile per legge. Eppure qualcosa di molto simile al trucco di cui sopra, sebbene in una forma molto più sofisticata, è stato messo in pratica da diversi istituti bancari che avevano escogitato movimenti analoghi, soprattutto utilizzando conti esteri, al fine di avere dei benefici fiscali che partivano dai minori profitti e arrivavano a sgravi fiscali di consistenti dimensioni.
Così, ancora qualche mese fa, quegli stessi istituti erano stati costretti a “conciliare” per centinaia di milioni di euro proprio perché le operazioni effettuate, seppure singolarmente del tutto legittime, nel loro insieme erano riconducibili appunto all’abuso in questione. Questo grazie anche al fatto che la stessa Corte di Cassazione si è premurata recentemente di ribadire questo concetto, dando così un’arma importante alla Guardia di Finanza che si era subito mossa per recuperare quanto dovuto dagli istituti in questione.
Qual è il problema, allora? Semplice: è di questi giorni una norma che il Governo ha varato e che, invece di inasprire e vietare esplicitamente queste pratiche, le lascia in un “limbo” che permetterà a numerose banche di vedere sanare le loro operazioni elusive. Cito dal sito del Governo Italiano:
16 Aprile 2012 – Il Consiglio dei Ministri si è riunito oggi alle ore 17,45 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del Presidente del Consiglio, Mario Monti. Segretario il Sottosegretario di Stato alla Presidenza, Antonio Catricalà. Il Consiglio ha approvato il disegno di legge sulla delega fiscale per dare maggiore certezza al sistema tributario, migliorare i rapporti con i contribuenti e proseguire nel contrasto all’evasione fiscale.
[…omissis…]
Il secondo capitolo della delega interviene sui rapporti tra fisco e contribuente, introducendo una definizione generale di abuso del diritto che, recependo la giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, sarà unificata con quella dell’elusione, rendendola applicabile a tutti i tributi.
[…omissis…]
In proposito verrà dato più rilievo al reato tributario per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e utilizzo di documentazione falsa; mentre si prevede l’esclusione della rilevanza penale per i comportamenti ascrivibili all’abuso del diritto e all’elusione fiscale.
A prima vista, a parte il riferimento alla depenalizzazione dell’abuso di diritto, non sembrano esserci scappatoie legali per gli istituti di credito. Dov’è allora il problema? Fondamentalmente è di tipo giuridico: se il governo legifera su un particolare argomento, infatti, le conclusioni della Cassazione non hanno più motivo di essere. Ergo, chi ha commesso un abuso di diritto prima dell’applicazione di questa norma, può ragionevolmente far valere le proprie ragioni, non essendoci più il vincolo della Cassazione. La questione è trattata in dettaglio in un articolo tecnico ma sufficientemente chiaro anche per i non addetti ai lavori, di Oreste Sacconi, pubblicato sul sito di Fisco Equo.
Cristo: «E l’altro ladrone dove è finito?»
Ladrone: «Eh, sai come vanno queste cose… Lui è un banchiere!»
Morale: il piccolo paga, il grande trova sempre modo di farla franca. E non possiamo neanche pensare che si tratti di una svista, e non solo perché è alquanto inverosimile che un governo formato da tecnici competenti possa lasciarsi sfuggire una norma del genere, ma perché non si tratta di un caso isolato. Una situazione simile, questa volta legata al rapporto fra istituti di credito e correntisti, si era già verificata nei giorni scorsi.
Mi riferisco alla questione dell’anatocismo, ovvero alla contabilizzazione trimestrale degli interessi bancari passivi di modo che sia possibile applicarvi a sua volta degli interessi. È quindi un meccanismo perverso in virtù del quale gli interessi passivi producono a loro volta altri interessi passivi, ovviamente a scapito dei correntisti. Nel dicembre 2010, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite aveva infatti sancito il diritto dei correntisti a ottenere la restituzione delle somme illegittimamente addebitate dalle Banche a titolo di anatocismo sul conto corrente. Nel febbraio 2011, tuttavia, un emendamento al decreto MilleProroghe recitava che
la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa.
Questa ambigua affermazione avrebbe permesso di far decorrere i dieci anni per chiedere la restituzione delle somme non dovute dall’addebito in conto e non dalla fine del rapporto, comportando a tutti gli effetti un nulla di fatto per molti correntisti che, sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale prevalente, avevano promosso azioni legali per far valere giudizialmente i propri diritti.
All’inizio di aprile 2012, tuttavia, la Corte Costituzionale, con sentenza n.78, dichiarava a tutti gli effetti illegittima la norma sull’anatocismo bancario, contenuta nel decreto Milleproroghe del 2010.
Per concludere, caro il mio signor Monti, non era Lei quello che solo alcuni giorni fa aveva dichiarato di essere riuscito a far pagare anche quelli che non avevano mai pagato prima? Se così è, forse è il caso che modifichi qualcosa, allora, perché proprio non ci siamo, soprattutto quando ci sono di mezzo le banche.
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