Il genere nella lingua italiana


La questione del “genere” in italiano, è piuttosto complessa. Parlo da scrittore e quindi da mestierante della parola, non certo da linguista. Il punto è che in italiano non sempre il genere grammaticale e il sesso biologico coincidono. Ad esempio, di un uomo posso dire che è “una bella persona”, usando un termine chiaramente femminile, tanto da declinare in tal senso anche l’articolo indeterminativo. Analogamente posso dire di una donna che è “un bel tipo”, usando qui un termine chiaramente maschile.

Quando non abbiamo a che fare con esseri umani, questa divergenza diventa spesso molto evidente. Ad esempio, per gli animali selvatici è normale che non esista relazione alcuna fra i due tipi di genere. Una volpe o una tigre possono riferirsi a un esemplare di sesso maschile, mentre un falco o un gabbiano possono essere usati per esemplari di sesso femminile, Ci sono alcune eccezioni, come leone e leonessa. Quando però parliamo di animali domesticati, ecco che i due generi tornano a coincidere. La ragione è ovvia: sono animali economici e quindi è fondamentale poterne determinare il sesso biologico dal nome. Un toro lo compri per la monta, una vacca per il latte, un bue per la carne. Con questo tipo di animali, persino il genere neutro, che in italiano non esiste, è evidenziato sul piano biologico.

Per le cose inanimate, poi, si fa in ordine sparso. Una casa è femminile mentre il tetto è maschile. Una pietra è femminile mentre ad essere maschile qui è il sasso.

E per gli esseri umani? Qui la faccenda si fa più complessa perché entrano in gioco questioni di carattere sociale. Ad esempio, la lingua italiana prevede che tutti i mestieri debbano essere declinati, anche se per alcuni termini abbiamo delle invarianze risolvibili solo con l’articolo, come “l’insegnante”. Qui, a causa dell’apostrofo, non è neppure visibile il genere e si evince dal contesto, ma c’è una insegnante femminile e uno maschile comunque. Più evidente è il caso de “il docente” e “la docente”. Cambia invece il sostantivo ne “il maestro” e “la maestra”.

Cosa è successo nel corso dei secoli? Che i mestieri al femminile venivano “creati” man mano che le donne accedevano al mestiere in questione. Ad esempio, finché non ci furono abbastanza dottoresse, si diceva “dottore donna”. Chiaramente, tutte le polemiche su ministra o avvocata sono nate dal fatto che solo di recente abbiamo avuto in Italia ministri e avvocati di genere femminile. Più o meno un secolo, forse qualcosa di più. La prima avvocata, Lidia Poët, è del 1883; la prima ministra, Tina Anselmi, è addirittura del 1976.

La Treccani ha recentemente aggiunto anche “soldata” nel suo dizionario, anche se io, personalmente, trovo più elegante soldatessa. Ma alla fine, la lingua è quella che si parla e i termini che si consolideranno saranno quelli maggiormente adottati, al di là di presunte logiche più o meno legate alla grammatica. Non è un caso che alcune lingue abbiano più “eccezioni” che “regole”. Ma di nuovo, non entro in merito: questo è il campo dei linguisti. Io, da scrittore, mi permetto il lusso anche di “violentárla” la lingua, se questo è funzionale a creare nel lettore una specifica percezione. Per me le parole sono come le pennellate di un pittore: bisogna conoscere la tecnica ma nulla vieta di sperimentare.

Ma torniamo al genere. È chiaro che una lingua così disarticolata fra sesso biologico e genere grammaticale si trovi in profonda difficoltà davanti a istanze sociali che a volte cercano di forzarla oltre i suoi limiti. Un esempio è il genere fluido. In lingue come l’inglese, dove maschile e femminile sono presenti in forma molto limitata, grazie anche agli articoli non declinabili per genere “the” e “a/an”, il problema si riduce spesso all’uso dei pronomi: “he” per lui, “she” per lei, “they”, pensato al singolare, per i non binari. In italiano, tuttavia, usare un plurale per i non binari non funziona, per cui si ricorre alla schwa o all’asterisco a fine parola, ma questo porta a una serie di incoerenze linguistiche non facilmente riducibili. La prima è che non sempre maschile e femminile nei sostantivi coinvolgono solo l’ultima vocale. Basti pensare ad attore e attrice. Un attore non binario è un attor* o un’attric*? E come gestisco l’articolo? Ed eventuali aggettivi qualificativi? E il fatto che spesso si declinano per genere anche alcune forme verbali come i participi? Alla fine, si rischia di generare un caos in una lingua che ha una sua coerenza intrinseca sul piano del genere grammaticale.

Certo, come si sa bene, esistono varie tecniche del linguaggio inclusivo per superare lo stallo, come quello di usare perifrasi, che tuttavia possono appesantire una lingua già di per sé abbastanza verbosa come l’italiano. Invece di dire il docente, parlerò di “chi insegna”. Tecnicamente funziona, praticamente no. Si rischia di generare frasi molto complesse che, se nella lingua scritta possono anche sopravvivere, finirebbero per diventare vittime di quella parlata che favorisce la sintesi e la praticità.

Soluzioni? Non ne ho, scusate. Se avete pensato fin qui che volessi farvi una qualche proposta, vi siete sbagliati. Non ho idea di come superare il problema, salvo forse introdurre il neutro nella lingua italiana. Sarebbe un cambiamento radicale ma, tutto sommato, fattibile, dato che la nostra lingua d’origine, il latino, lo aveva. Permetterebbe di rispettare la struttura grammaticale già esistente aggiungendo un genere, quello neutro, appunto, rispetto al quale declineremmo sostantivi, articoli, aggettivi e participi.

Ma lo scopo di questo articolo non è proporre una soluzione, ma suggerire una certa prudenza nell’adottarne una, magari spinti dalla necessità sociale comunque di rispettare un’identità di genere, ma tale da stravolgere una lingua che ha comunque una sua eleganza e coerenza. Senza parlare del secondo aspetto, già messo in pericolo da un eccessivo uso di forestierismi vari, soprattutto anglicismi, ovvero la fonetica. La schwa /ə/ della lingua anglosassone quasi non si pronuncia. I britannici spesso la saltano proprio in molte parole — ma i britannici non pronunciano neppure molte consonanti, tanto che c’è da chiedersi perché mettano tante lettere nelle loro parole se poi non servono 😏 — gli americani emettono un suono breve che varia da Stato a Stato. È comunque un suono che esiste in alcune lingue della nostra penisola, come il napoletano, ma non nell’italiano. Introdurlo sarebbe come introdurre nella nostra lingua il “th” sordo /θ/ oppure quello sonoro /ð/, o anche le fricative velari sorda h̬ /x/ o sonora ġ /Ɣ/ tipiche della lingua araba.

Personalmente, quando parlo italiano, mi piace parlare un buon italiano, quando parlo inglese, parlare un buon inglese. Quel mescolio di termini italiani e inglesi, molto comune nel linguaggio aziendale nel nostro Paese, non lo sopporto affatto. A maggior ragione, sinceramente, la schwa proprio non mi piace e ancor meno il carattere asterisco che non è neppure una lettera ma un simbolo.

Detto questo il problema resta: quello di come riferirsi a un non binario. Attenzione: parlo di nuovo da scrittore, non da sociologo. Non sto infatti dicendo che si debba fare per “rispetto a chi binario non è”, sebbene io sia di questa opinione, perché alcuni potrebbero non essere d’accordo per ragioni ideologiche e quando si hanno valori diversi non esiste un criterio universale per stabilire “chi abbia ragione”. Ne faccio una questione pratica: la lingua serve per comunicare, quindi, se voglio comunicare un concetto, è importante che la lingua mi offra gli strumenti per farlo e, possibilmente, farlo nel modo più sintetico e semplice possibile, evitando perifrasi e giri di parole. E fare un’affermazione che riguarda un individuo non binario in modo che tale caratteristica sia evidente, ricade sotto questa necessità pratica.

Un limite analogo io lo trovo nella mancanza, in italiano, dell’equivalente del termine inglese “sibling”. Se volessi affermare che una certa persona ha sei, fra fratelli e sorelle, lo devo dire così. Gli inglesi usano un singolo termine che vuol dire indifferentemente fratello o sorella. Ci sono situazioni in cui è estremamente comodo ed evita di ripetere più volte nella frase “fratelli e sorelle”, anche perché esiste un caso in cui potrebbe essere usato che non è gestibile in italiano, ovvero quando non so se quella persona abbia effettivamente fratelli e sorelle, oppure tutti fratelli oppure tutte sorelle. In questo caso dire “fratelli e sorelle” sarebbe comunque impreciso: serve un’indeterminazione maggiore. Per chi non fa lo scrittore di professione, probabilmente questo, potrà pensare, è un parlare del sesso degli angeli, ma per chi fa della parola un mestiere, riuscire a infondere in un numero limitato di parole quanto più significato possibile, è fondamentale.

E così siamo arrivati alla fine, una fine senza conclusioni o proposte, ma solo un invito alla riflessione: esiste un problema linguistico di origine sociale che riguarda l’identità di genere. È un dato di fatto. Come si possa risolvere non è banale e credo sia importante evidenziarlo, ovvero evitare di introdurre soluzioni frettolose senza ponderarne bene le conseguenze. Già oggi parliamo una lingua povera, dove le nuove generazioni hanno eliminato forme verbali e ridotto all’osso il linguaggio, spesso ignorando sinonimi e varianti. Una lingua povera nel suo vocabolario porta alla fine anche a un pensiero povero e una cultura altrettanto povera. Una lingua ricca, al contrario, impegna la mente in uno sforzo comunicativo arricchente per chi parla o scrive e per chi ascolta o legge.

Pensateci.


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