
Cos’è un rifugiato? È una persona che il giorno prima di diventarlo aveva una casa, degli amici, la sera andava a farsi una pizza con i colleghi di lavoro o cenava con la famiglia, guardava una partita in televisione o se ne andava a fare una passeggiata in centro per mangiarsi un gelato con la figlia più piccina. Probabilmente non era ricco ma neppure povero, poteva permettersi una vacanza all’estero una volta all’anno o comprarsi l’ultimo modello di smartphone.
ESATTAMENTE COME LA MAGGIOR PARTE DI NOI.
Poi arriva il giorno dopo. Suonano le sirene, si sentono delle grida, delle esplosioni. Corre a casa ma trova solo un cumulo di macerie. L’intero condominio è andato giù, colpito in pieno da una bomba. Scava con le mani nella speranza di trovare qualcuno della sua famiglia ancora vivo. Pian piano altri si aggiungono a lui, poi arrivano due soldati e un poliziotto che si mettono a rimuovere le macerie con una piccola scavatrice. Dopo due giorni estraggono dalle macerie la moglie e il figlio più grande. Della sua piccolina non trovano neppure il corpo e la moglie non gliela fanno vedere, per come è ridotta. Non sa dove dormire, dove mangiare, neppure come lavarsi. Sporco ma con addosso ancora l’abito buono dell’ufficio, finisce per trovarsi in un campo profughi.
Da quel momento è un incubo, ma lo vive quasi anestetizzato. Non sa bene come, si ritrova in una lunga fila di persone che fuggono dal Paese. Alle sue spalle il rimbombo dell’artiglieria e colonne di fumo nero che si innalzano nell’aria. Poi due lunghi giorni in una corriera che lo porta a sud, in un’altra nazione, grazie a una ONG. Qualcuno lo aiuta con le pratiche per chiedere asilo, una giovane che non avrà avuto molti più anni del suo primogenito. Parlano inglese, perché lui non conosce la lingua del posto. In effetti spiccica al più qualche parola di inglese ma basta, e comunque non ha bisogno di capire la lingua per rendersi ben presto conto che la gente del posto lo guarda male. Ha la barba lunga, gli occhi arrossati, la pelle secca e riesce a farsi una doccia una volta a settimana. Indosso, un felpa che ha sostituito la giacca ormai lisa, ma i pantaloni sono ancora quelli dell’abito buono che usava per andare al lavoro. Unico lusso, l’ultimo modello di cellulare con il quale contatta ogni tanto i genitori che, testardi, non hanno voluto lasciare il Paese.
Poi un giorno, entrando in un bar, chiede un caffè, prende il telefono per chiamare i suoi ma un paio di uomini e una donna iniziano ad additarlo con commenti che sembrano sarcastici. Qualcosa ormai ha imparato della lingua locale, abbastanza per capire che gli stanno dando dell’imbroglione perché ha quel bel cellulare costoso: uno che viene lì “a rubare il lavoro” ai locali, quello ormai è. Lui che è laureato in ingegneria e campa raccogliendo pomodori in un campo sotto il sole per pochi euro al giorno.
Dopo un paio di mesi lo viene a cercare la giovane dell’ONG. Ha lo sguardo triste. Che è successo? La sua richiesta di asilo è stata rifiutata. Un mese prima era stata approvata una nuova legge dal nuovo governo, conservatore e sovranista, molto più restrittiva nei confronti dei migranti. In pratica, concede l’asilo solo se sei in grado di dimostrare che se torni nel tuo Paese sei nominalmente in pericolo di vita. Quel “nominalmente” è un escamotage per dare l’asilo solo a qualche politico e a qualche personaggio più in vista. Gli altri devono lasciare il Paese. Poco importa se buona parte è stato conquistato dal nemico e chiunque torni lì, sarà sicuramente in pericolo di vita. Parlano di pulizia etnica. Per le donne, anche peggio.
Alla fine vengono a prenderlo. Mentre fa la fila, strascicando i piedi, lo sguardo a terra, in attesa di salire sulla corriera che lo riporterà nel suo Paese, osserva con la coda dell’occhio la gente attorno a sé, gli sguardi soddisfatti nel veder partire lui e gli altri disgraziati che, come lui, non rientrano più nei limiti di legge. Lo aspetta così un altro lungo viaggio. Per dove, esattamente, non lo sa. Nel suo Paese non ha più una casa e quella dei suoi è stata presa dal nemico. Ormai è una settimana che sua madre non risponde più al telefono. Ma che importa? Alla fine, meglio morire che essere considerato un parassita da chi vuole solo vivere come viveva lui fino a pochi mesi prima e si illude che a loro quella sorte non toccherà mai.
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