L’occasione per l’incontro con lo scrittore Erri De Luca è l’uscita del suo ultimo libro: «Montedidio», ancora una volta ambientato in un quartiere di vicoli a Napoli, ancora una volta protagonista un ragazzo. E ancora una volta l’autore di«Tu, mio», «Non ora, non qui», «Tre cavalli», «Una nuvola come tappeto», descrive un mondo pieno di verità, di sofferenze e gioie, con la poesia che caratterizza la sua opera. E nell’innocenza di questa favola lieve e delicata si alza, forse per contrasto, ancor più forte l’implacabile denuncia sociale e esistenziale.
Il suo ultimo libro, «Montedidio», è una fiaba o una preghiera?
Sulla preghiera non mi soffermerei: ce ne sono già tante di bellissime e non me ne inventerei una nuova. Invece sulla favola sono d’accordo.
Perché "scappa" una cosa simile ad una persona che scrive sempre "cose" serie?
Le favole sono una cosa seria e hanno una loro allegria e violenza un po’ speciali. Le favole sono atroci: Cappuccetto Rosso finisce in bocca al lupo, ma è anche felice di perdersi e di perder tempo nel bosco. Questa è una favola napoletana su un ragazzino di tredici anni che, in questa età fatidica, comincia a lavorare da un vecchio falegname, che è anche pescatore. Il ragazzo proviene già da un mondo fantastico pieno di spettri e di spifferi: racconta che gli spettri non si possono vedere, ma solo toccare, e quando hanno voglia di abbracciare qualcuno prendono la rincorsa e gli si slanciano contro con tutta la forza. Lui li avverte come delle carezze che gli asciugano il sudore. E lo abbracciano spesso.
Lei racconta spesso il mondo dei ragazzi. Perché questa scelta?
A me interessano i punti di passaggio in cui il tempo della vita di una persona improvvisamente precipita, corre, e in pochissimo tempo se ne precisa il destino. In«Tu, mio» ho raccontato di un ragazzino di sedici anni che in un’estate scopre l’amore, se stesso e la collera. In Montedidio un ragazzo di tredici anni passa dalla puzza di bambino alla puzza di adulto, perché porta i soldi a casa, come accadeva e negli anni ’50 e ’60 a Napoli: era la capitale mondiale del lavoro minorile.
Qual è il suo legame con Napoli, la sua città natale?
Mi sono staccato da Napoli con tutta la forza che ci potevo mettere a diciotto anni. Io mi considero un napoletano di origine, vengo da lì, ma non sono più di lì. Non ho più il diritto di dirmi che sono di lì. E il fatto che io venga da Napoli spiega molto di quello che finora ho combinato. Per la scrittura il legame è fortissimo: le mie storie si aggirano spesso in qui paraggi. E Montedidio è un libro non direttamente italiano, ma in italiano: il ragazzo si sforza di scrivere in italiano, una lingua che considera muta.
Cosa significa?
Che conosce l’italiano solo attraverso i libri perché in città non lo parla nessuno. E la sera scrive le sue avventure del giorno in italiano per riposarsi dal chiasso del napoletano e della giornata.
Il suo libro accomuna Napoli all’Israele. Quali sono i veri legami?
Napoli è una città in po’ strana, con il culto sfegatato per il sangue. E quello di San Gennaro non è che un esempio. A Napoli ci sono tanti altri santi ugualmente miracolosi che svolgono un’attività sanguigna, dallo stato solido a quello liquido, più intensa di quella di San Gennaro. Il sangue è dentro tutte le bestemmie e anche il ragù, che facevano le nostre nonne, ha il colore del sangue venoso, cupo e denso. In una parte della Sacra Scrittura si afferma che Gerusalemme sia città dei sangui e Napoli, in questo senso, è un po’ parente di Gerusalemme. La seconda parentela è Montedidio, un vecchio quartiere di tufo dove io sono cresciuto. Montedidio è un nome che spetta alla geografia e alla storia di Gerusalemme: è un’altura ufficialmente assegnata a quella città e il Montedidio a Napoli è invece abusivo. Io trovo molte affinità tra gli atti e i pensieri dei napoletani e quelli della tradizione yiddish, degli ebrei dell’Europa orientale. In quel mondo ho trovato molto di napoletano: sono ciarlieri, gesticolano, sono molto superstiziosi, hanno barzellette in comune.
I napoletani potrebbero davvero essere una delle dieci tribù perdute d’Israele?
Questa faccenda riguarda il fantastico del bambino che si allea con il fantastico di un vecchio ciabattino piovuto dal nord Europa dopo la guerra: un ebreo gobbo, scampato all’olocausto e piombato in Italia. Lo scarpaio sarebbe voluto andare a Gerusalemme, sul Monte di Dio, ma un angelo gli annuncia che, poiché non si è comportato molto bene, è stato condannato a un castigo per derisione: invece del Monte di Dio di Gerusalemme gli tocca il Montedidio di Napoli.
Quanto conta la scrittura nella sua vita?
Sin da piccolo mi sono sempre tenuto compagnia con la scrittura, con storie sempre in prima persona e storie che incontrano spesso i fatti miei. Mi capita di dimenticare i fatti e quando, improvvisamente, ne ricordo qualcuno ecco che mi viene voglia di scrivere. Non è mai un progetto, ma un dono della memoria. Spesso è una convocazione di assenti.
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