Viviamo sempre di più in un mondo virtuale: giochi al computer, televisione interattiva, applicazioni per la progettazione di edifici, automobili, elettrodomestici. Nulla di male, in effetti; anzi, grazie a questi strumenti, oggi è possibile eseguire operazioni una volta impensabili e con costi alla portata di tutti. Basti pensare ai programmi per l’automazione di ufficio, come gli elaboratori di testi o i fogli elettronici, oppure alla posta elettronica. Oggi chiunque può avere sul proprio PC di casa applicazioni in grado di permettergli di produrre e stampare documenti di ogni tipo, quasi avesse una piccola tipografia domestica. La posta elettronica e il modem/fax, inoltre, ci permettono di comunicare velocemente in tutto il mondo a costi molto limitati, per non parlare dei programmi di VoIP (Voice on IP) come Skype.
Tutto a posto, allora? Solo vantaggi? Nessun prezzo?
Non è proprio così. Un prezzo da pagare forse c’è, o quantomeno c’è un rischio. Nulla di drammatico, non certo tale da rinunciare a tecnologie così utili, ma è bene esserne coscienti, perché ignorarlo potrebbe essere un errore. Chiarisco subito che l’obiettivo di questo articolo non è quello di dimostrare che i videogiochi o la televisione fanno male, né tantomeno che le tecnologie informatiche sono dannose. Lungi da me. Personalmente non amo quegli pseudo-scoop che ogni tanto compaiono su alcuni giornali e che riportano la notizia che studi seri di questo o quell’istituto, hanno dimostrato che se un bambino sta più di due ore al computer, diventa mezzo psicopatico o asociale. Certo, eccedere comporta sempre conseguenze negative, ma un’eventuale dipendenza dal PC non è poi più comune di quella dall’ascensore o dalla corrente elettrica. Basti pensare ai black-out: la gente entra nel panico solo perché non può vedere il programma televisivo preferito in TV e deve stare in casa a lume di candela. In effetti, un buon videogioco può sviluppare le capacità di ragionamento in un bambino, i riflessi, la velocità nel prendere decisioni, il coordinamento occhio-mano, e comunque qualsiasi tipo di gioco, purché educativo, è sempre un buon complemento ad altre attività quotidiane, siano esse studio, lavoro, esercizio fisico o lettura.
Il problema che intendo evidenziare, invece, è un altro. Avete mai visto i cubi colorati? Sì, quelli con i quali per decenni hanno giocato i bambini di ogni parte del mondo. Da quelli in legno verniciati con i quali giocava mio nonno a quelli in plastica morbida profumata con i quali ha giocato mia figlia. Cubi, costruzioni, e poi Lego, Meccano e decine di altri giochi che hanno caratterizzato la nostra infanzia, tutti con una serie di caratteristiche comuni: tridimensionalità, fisicità, componibilità. Tre caratteristiche fondamentali per lo svilupparsi di determinate capacità nel nostro cervello. È un fatto ben conosciuto, infatti, che le mani impegnino una parte non indifferente delle risorse del cervello: le mani e, soprattutto, le dita sono estremamente importanti nel nostro interfacciarci con il mondo che ci circonda. Con le mani tocchiamo, esploriamo, sentiamo il caldo e il freddo, le caratteristiche di una superficie, afferriamo, usiamo strumenti di ogni tipo, costruiamo, facciamo sostanzialmente quasi tutto. Forse le mani, assieme agli occhi, sono le fonti di informazione più importanti che abbiamo; a differenza degli occhi, tuttavia, esse non ci permettono solo di conoscere ciò che ci circonda, ma di manipolarlo, appunto, di modificarlo, gestirlo in funzione delle nostre necessità. Il legame mani/occhi/cervello è l’asse portante del nostro aver sviluppato un’intelligenza superiore ad altri animali. Ma questa capacità va sostenuta, addestrata, fin dall’infanzia. Le relazioni spaziali nascono dal legame che il cervello crea fra ciò che vediamo e ciò che tocchiamo. La tridimensionalità, che ci proviene dalla visione bioculare, può essere verificata solo con il contatto fisico: è quello che ci fa acquisire fiducia nelle nostre capacità visive e ci conforta anche là dove tale contatto non è possibile, come per un oggetto troppo lontano per poter essere toccato.
Tutto questo lo sviluppiamo fin da piccoli proprio toccando gli oggetti, spostandoli, mettendoli in contatto l’uno con l’altro secondo criteri differenti: colore, forma, lettere o altri simboli disegnati sopra. Il tutto al fine di realizzare qualcosa, qualcosa di nuovo magari, che è più della somma delle parti: un muro non è solo un mucchio di mattoni, una gru non è solo un insieme di travi di metallo. Questi oggetti, che costruiamo con le nostre mani, acquisiscono una loro dimensione, un loro utilizzo che va oltre a quello delle singole componenti. Così, i cubetti colorati diventano il campo di prova della nostra capacità di innovazione, cosa che ci costringe non solo a ideare, ma a confrontarci con le difficoltà che possono sorgere nel realizzare quello che abbiamo pensato.
Certo, oggi io posso disegnare un oggetto con un CAD e sviluppare direttamente un prototipo con un CAM, ma tutto ciò si può fare perché so già come reagiscono certi materiali a determinati sforzi, come posso lavorare un metallo piuttosto che un composito, come posso identificare un collegamento logico e come posso realizzarne uno fisico, come reagirà un sistema a eventuali cambiamenti di temperatura o di pressione. Tutto ciò lo so perché milioni di persone prima di me hanno realizzato le stesse cose a mano, hanno piallato il legno e temprato il ferro, molato la pietra e dato forma al vetro, partendo proprio da un’idea, un disegno, un progetto. Toccare, sentire con le dita, sgrossare un blocco per poi lavorarlo di fino, non sono stati solo importanti per permetterci di sviluppare automi e catene di montaggio automatizzate: hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del nostro cervello.
Ma cosa succederà se le generazioni future rinunceranno sempre di più al contatto fisico per operare in un mondo solamente virtuale, un mondo che non dà le stesse sensazioni né permette le stesse interazioni che possono essere date da un cubetto di legno o da una barretta perforata di metallo? Come si svilupperà la nostra mente in un mondo in cui fin da piccoli i bambini interagiranno solo con un mondo virtuale, un mondo che al di là delle ipotesi fantascientifiche alla Matrix, non potrà essere ancora per molto tempo neanche lontanamente paragonabile a quello reale?
Ecco il rischio: abbandonare uno mondo per un altro, rinunciare a determinate esperienze per farne altre. È un rischio, se vediamo questo problema come un aut aut, ma non lo è se ci rendiamo conto che le due scelte non sono alternative, ma complementari. Ben venga quindi il videogioco, purché restino la palla e i pattini; ben vengano i viaggi virtuali, purché non si rinunci alla bicicletta e a visitare di persona il mondo; ben vengano le comunicazioni remote, purché ci si fermi ogni tanto a parlare con chi ci sta accanto, a guardarlo negli occhi, ad ascoltarne la voce; ben vengano CAD, CAM, applicazioni di ogni tipo possibile, purché non si rinunci a lavorare un pezzo di legno o a modellare un vaso, a dipingere un quadro o a scrivere con una penna. La penna… già, persino della penna le nuove generazioni stanno perdendo l’uso. Ho visto bambini in difficoltà persino ad utilizzare forchetta e coltello, abituati com’erano al panino e alla merendina.
Speriamo solo che almeno il sesso si salvi, sebbene ogni tanto qualcuno ne propone una versione virtuale. Ma forse anche quello sarà destinato a scomparire, e non solo in termini di piacere dell’atto sessuale, ma persino di procreazione, perché non mi stupirei se prima o poi qualcuno sviluppasse una sorta di tamagotchi "umano" per coloro che vorranno virtuale anche un bambino così che, se avranno troppo da fare o saranno troppo impegnati con il lavoro o altri interessi, potranno sempre spegnerlo e la cosa finirà lì. Una provocazione? Mi auguro tanto di sì.
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