Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Caro Presidente,
ho letto l’articolo pubblicato ieri dal New York Times e mi ci sono riconosciuto. Mi sono riconosciuto in un Paese vecchio, non tanto — forse dovrei dire non soltanto — perché vecchia è l’età media di chi ci vive, dato che ho sempre pensato che l’età fosse più una questione di testa e di cuore che anagrafica, ma perché vecchia è la sua mentalità, il suo modo di porsi di fronte alle sfide che la vita ci offre; un Paese pieno di ansie e preoccupazioni dove si vuole tutto senza dare nulla, dove non si fa nulla se c’è anche il più piccolo rischio, dove tutto deve essere garantito purché sia privilegio e non diritto, interesse e non dovere.
Un Paese dove il termine visionario è sinonimo di pazzia e non di capacità di vedere oltre, ovvero là dove gli altri non arrivano; dove una cultura intrisa di crocianesimo e bigottismo pseudocattolico relega la Scienza e la Ricerca al ruolo di sottocultura mitizzando un Umanesimo fatto di ideologia e demagogia, di assoluti creati ad uso e consumo di chi ha il potere; un Paese dove chi vale rappresenta un problema, chi è onesto un disturbo, chi sogna un fastidio: il Paese delle Non Opportunità.
La chiamiamo democrazia, ma ormai ci hanno tolto anche il diritto di scegliere chi ci deve rappresentare, lasciando anche quest’ultima incombenza a due grandi Cleri che si combattono in una battaglia di potere a colpi di insulti, in cui le istituzioni sono solo strumenti di lotta e il Paese una risorsa a cui attingere a piene mani. La realtà è che siamo solo un’oligarchia corporativistica basata sul clientelismo e l’ipocrisia. Oligarchia perché il Paese è spaccato in due e la linea che demarca questa spaccatura non attraversa i confini geografici fra Nord e Sud né quelli ideologici fra Sinistra e Destra, ma separa un gruppo ristretto di persone dal Popolo, quel popolo che per definizione, in una democrazia, dovrebbe essere il vero depositario del potere. Corporativistica perché questo potere si raccoglie attorno a interessi che formano, come muffa sul pane, il vero cancro della nostra povera Italia, terreno di conquista di mille poteri come già lo era nel Medioevo, solo stavolta nostrani e non più stranieri. Clientelare perché non il merito, non la capacità e la competenza, non il valore e la solidarietà, non il desiderio di dare e contribuire, non i buoni sentimenti e la buona volontà determinano chi deve dire, fare e avere, ma il sotterfugio, il do ut des, lo scambio di favori, eredità di un Impero Romano di cui abbiamo solo preso i difetti e scordato la grandezza. Ipocrita, perché al danno di vivere in un Paese che sa solo chiedere e non dà mai nulla — nulla di fatto rimane dopo che chi ha il potere ci ha messo sopra le mani — si deve anche subire la beffa di chi afferma che tutto va bene, che siamo il Paese più bello del mondo, rinvangando fasti passati dei quali oggi siamo solo vaga eco e sparuto ricordo.
Un Paese nel quale della Giustizia devono aver paura solo gli onesti, dove i criminali diventano delle star dei media e il delitto paga, sempre, e chi lo commette grida e si adira offeso se del crimine commesso viene chiamato a render conto. Un Paese che ha trasformato la realtà in uno spettacolo e lo spettacolo in realtà. Un Paese dove tutto è commistione: il Parlamento governa, il Governo legifera, i Giudici decidono se e quando applicare le leggi e nei confronti di chi, a seconda di opportunismi e di interessi che ben poco hanno a che fare con la Giustizia. Un Paese dove il privilegio e l’inganno diventano Legge affinché nessuno li possa condannare, dove il diritto e la necessità diventano solo uno strumento di inganno per attirare un consenso da spendere in un gioco dal quale il popolo è perennemente escluso.
Un Paese dove l’informazione è spettacolo e superficialità nel migliore dei casi, braccio armato dei tanti poteri che si contendono quel poco di carne che è ancora attaccata a uno scheletro ormai rosicchiato fino alle ossa, nel peggiore. Dove ogni frase, ogni fatto, ogni evento, scatena una valanga di commenti e di opinioni da parte di una classe di parassiti che giornali e telegiornali si premurano di farci arrivare in un’interminabile passerella di primedonne. Quanto succede all’estero poco conta rispetto ai dibattiti esistenziali di chi si pensa nell’ombelico del mondo. Un Paese che non sa più produrre Poeti e Navigatori, Santi ed Eroi, e che si gloria dei risultati di chi è stato accolto all’estero e ha potuto finalmente dimostrare il proprio valore, ricordandosi solo allora che è uno dei suoi figli. Un Paese che non produce più nulla se non sfiducia e delusione.
Caro Presidente, ho ascoltato ieri le parole che Lei ha pronunciato e non mi ci sono riconosciuto. D’altra parte, come potrei riconoscermi nelle parole di chi vive in un’altra vita e su un altro pianeta? Di chi ha una corte che non ha nulla da invidiare a quella di un monarca del passato, dove anche l’ultimo dei servitori guadagna in un anno più di quanto ognuno di noi potrebbe vedere in un lustro, che non ha problemi o pensieri quotidiani perché ha sempre chi glieli risolve, che non fa la fila davanti a uno sportello per ore o gira fra gli scaffali di un supermercato cercando di non farsi tentare da una cultura dello spendere che mal si accompagna alla realtà di un’economia domestica schiacciata da aumenti e balzelli di ogni tipo.
Lei e quelli che come Lei ci guardano dall’alto, come possono capire le necessità e le delusioni di un Paese del quale, di fatto, non fanno parte? Vivete in un mondo che ha ogni possibile privilegio e continua a darsene, mentre con ipocrisia chiede al Paese l’ennesimo sacrificio. Un mondo che non ha idee né vere soluzioni ai tanti problemi che ci assillano e che è capace solo di accusare di tutti i mali possibili coloro che lo hanno preceduto, salvo poi agire nello stesso modo, cambiando solo il colore delle pedine sulla scacchiera ma lasciando la stessa insaziabile fame di potere e di ricchezza che corrompe alla fine ogni nuova speranza, ogni nuovo attore che si presenta sul palcoscenico della nostra politica così piccola, così provinciale, capace solo di parlarsi addosso.
Caro Presidente, quando coloro che vivono al di fuori del nostro Paese e lo guardano con affetto e tristezza per un mondo perduto, un Paradiso invecchiato, che nulla più ha da dare e sta morendo di inedia strangolato dalle sue stesse paure, quando costoro prendono la penna e scrivono una cruda ma realistica elegia di un quadro che oramai è solo natura morta, La prego, non gridi allo scandalo e all’eresia, ma mantenga un muto dignitoso silenzio, perché se proprio si deve lasciare la scena, cerchiamo almeno di non farlo nel ridicolo.
Concordo e sottoscrivo al 100%, sia io che chi accanto a me sta leggendo. Di fatto siamo (non) rappresentati da una classe politica che del Paese ha scelto di non fare parte, tirandosene fuori a suon di privilegi.
Leggendo questo articolo, riga dopo riga , sento una rabbia ancestrale salire, cerco di soffocarla e si trasforma in nausea. Poi mi sforzo di esser costruttivo, e, arrivato in fondo, cerco di trovare l’aspetto catartico di quest’articolo.
Grazie Dario, ho passato una mezz’ora di intense meditazioni.
Il Nobel per la Fisica assegnato ai giapponesi Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa ma negato a Nicola Cabibbo, riconosciuto universalmente come uno dei tre padri della matrice CKM che prende appunto il nome dalle iniziali dei cognomi dei tre scienziati, è un’ennesima dimostrazione di come ormai l’Italia venga sistematicamente ignorata per tutto ciò che riguarda il mondo della Scienza e della Cultura in genere.