L’occasione per questa conversazione con la scrittrice Maria Giovanna Luini è il suo ultimo libro: «Una storia ai delfini» (Edizioni Creativa) ambientato tra la città di Milano e l’isola di Ponza. Tra tanti personaggi c’è quello di una donna, la protagonista, che racconta una storia di dolore senza fine. O almeno così sembra. È una scrittura agile quella della Luini, priva di fronzoli, secca e rigorosa, quasi a non voler lasciare la possibilità, al lettore, di soffermarsi in dettagli inutili. Il dolore è dolore, niente di più niente di meno, con tutto il mistero che porta con sé. E la Luini lascia il mistero a noi esseri umani, ma forse non del tutto ai delfini.
Perché una donna come Lucia, la protagonista del suo libro, confonde l’amore con l’incondizionata sudditanza?
Lucia ha imparato da bambina che l’amore è una conquista: «se sarai brava potrai ricevere amore», più o meno è così. Probabilmente il suo rapporto con il padre schivo e avaro di parole, che l’ammirava incondizionatamente per la sua passione per i libri, le ha insegnato che l’amore si ottiene diventando ciò che l’altro si aspetta da noi. Legge molto perché le piace, ma anche perché sa che suo padre ne è felice. Ripete lo stesso schema di comportamento con Paolo, suo marito, che vuole da lei un certo tipo di prestazione sessuale e lei non si chiede se quel genere di sesso le piaccia o meno: esegue perché in questo modo otterrà l’amore. Purtroppo non funziona così, l’amore non si ottiene adattandosi alle richieste altrui, e Lucia lo scopre con molta amarezza. Ma forse con la possibilità finalmente di liberarsi dalle catene di un comportamento non spontaneo.
Lei pensa che sia un problema principalmente femminile?
Sì, gli uomini sono più liberi. Agiscono seguendo la propria volontà, ciò che realmente desiderano, e difficilmente pensano «faccio questo perché in questo modo otterrò l’amore o l’attenzione o l’amicizia altrui». Anche quando si adeguano a regole o cliché scomodi o che trovano banali lo fanno perché in fondo hanno in mente il loro personale benessere, quello cui tutti dovremmo tendere. Hanno ragione loro. La donna viene cresciuta con l’idea di essere sempre adeguata alle richieste dei genitori, del marito, dei figli, dei colleghi, di chiunque sia in relazione con lei. La donna "deve", a priori. Che si tratti di un taglio di capelli che al marito non piace o del sesso di gruppo che può essere assai divertente ma non è necessariamente la passione condivisa da entrambi, la donna accetta molti più compromessi. E confonde la gratitudine, il bisogno con l’amore: riceve affetto, gratitudine, simpatia, soddisfa i bisogni ma non è amata. Quando scopre che forse sarebbe più amata se fosse libera, libera davvero, fa una fatica tremenda ad abbandonare schemi di comportamento ereditati dalla madre, dalle nonne, dalle, zie, dagli insegnanti.
Il dolore che racconta in «Una storia ai delfini» sembra provocare due reazioni: la lotta per contrastarlo ma anche il desiderio di cullarlo per non abbandonarlo. È davvero convinta che sia inutile combatterlo?
L’epilogo è il capitolo del libro che più spesso viene citato alle presentazioni e sulle recensioni. Quando Lucia dice di avere scoperto che è inutile combattere il dolore intende dire che è inutile rimuoverlo. Se esiste un dolore, nasconderlo malamente da qualche parte per non soffrire non è una soluzione: ritornerà fuori nei momenti e nei modi più imprevedibili se non è vissuto. Vivere il dolore quando c’è fa malissimo, ma è l’unico modo per sopravvivergli sul serio, senza "code" di disperazione che creeranno danni dopo mesi o decenni. Lucia è una donna che lotta, anche se inconsapevolmente: passa attraverso difficoltà, abulia, amore trovato e perduto, lutti, incomprensione, solitudine, eppure continua a vivere. Lo fa perché le risorse esistono e non sempre sono evidenti, arrivano nel momento in cui servono e ci salvano. Quanto al cullare il dolore, anche questa è una prerogativa di molte donne: arrivare a immergersi tanto nella sofferenza da crogiolarsi in essa, con fatiche indicibili per venire fuori. Devo dire che però ho conosciuto anche qualche uomo con la tendenza a cullare il dolore, come dice lei.
Lei è anche un medico che si confronta ogni giorno con il dolore delle persone, quanto è decisiva la forza di lottare per la guarigione?
La consapevolezza aiuta molto perché crea collaborazione positiva tra chi è malato e chi cura. Lottare nel senso di collaborare, chiedere informazioni, fare domande e avere fiducia. E anche tirare fuori la grinta quando serve, piangere se si è tristi, sorridere se c’è sollievo. Trovare motivi per vivere e non per morire, che siano l’amore o la fede o impegni ancora da portare a termine, passioni da scoprire. Vivere in pieno nonostante la malattia, questo aiuta.
A dispetto delle vicissitudini, la protagonista non "urla" mai la sua sofferenza quasi con il timore di assordare il lettore "innocente". È così?
È così. Ma non è una buona idea. Un urlo liberatorio risolve molta più ansia di mille silenzi che comprimono l’anima.
La morte, uno dei grandi temi della letteratura, è trattata con la dignità che le è dovuta. Quanto costa mantenere questo rigore?
La morte è parte di noi, della nostra vita. Difficile accettarla sul serio. È un argomento che crea fastidio e sofferenza, oppure fuga. È facile trattarla nelle narrazioni perché scuote, risveglia il pathos e la commozione. Però credo sia fondamentale il rispetto: di tutto si può parlare, tutto si può raccontare senza cadere nella tentazione di usare argomenti scomodi o tristi per vendere il proprio libro.
Il mare. Sembra che lei lo conosca molto bene e nel libro appare un alleato, una consolazione e addirittura uno specchio di Lucia. Quanto è importante nella sua vita?
Il mare è un sollievo, distacca dalla terra e dal carico di pensieri e ansie che ci inseguono nella vita di tutti i giorni. Il mare è mutevole, placido oppure tormentato, chiede attenzione e prontezza ma anche estrema semplicità. Per vivere in mare è necessario imparare dalla natura e ascoltarla, rispettarla, capirne i segni in ogni momento. L’abbraccio del mare è liberatorio. La cattiveria del mare in tempesta è come l’urlo liberatorio di cui parlavamo prima: l’urlo necessario, totale, assoluto. Da imparare.
Lei racconta la storia ai delfini. Forse gli esseri umani non avrebbero potuto capire del tutto?
Lucia è una scrittrice, quindi inventa storie. Prende dalla realtà ma la trasforma, la plasma per creare. Le sue storie non sono la sua vita. Quando, diversamente dal solito, decide di scrivere la sua vita pensa che non si tratti di un racconto da pubblicare: la vita di tutti è ugualmente interessante, la sua non è meglio né peggio della vita di altri, e forse i delfini avranno la sensibilità spontanea di ascoltarla e portarla lontano, senza dare peso eccessivo o sminuire. Soprattutto senza giudicare. La cosa peggiore dello scrivere è il giudizio che ricevi come persona, forse è questo il senso del raccontare ai delfini. Scrivi storie e accetti di metterti a nudo nonostante gli eventi, i personaggi siano frutto della tua fantasia, e sai che verrai giudicata: i giudizi sul libro sono necessari, anzi fondamentali, ti aiuteranno a capire se il tuo lavoro è stato buono, discreto o pessimo, ma i giudizi su di te come persona saranno conseguenze non sempre facili da tollerare. Firmerai una storia e saprai che inevitabilmente per alcune persone tu sarai la protagonista, o ciascuno dei tuoi personaggi, e il giudizio, che in teoria dovrebbe essere solo su ciò che la tua fantasia ha creato, sul tuo stile, sulla scelta di un racconto piuttosto che un altro, cadrà spesso sulla tua vita reale, su di te come persona. In questo senso meglio parlare ai delfini.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Esce a fine giugno il romanzo breve «Le parole del buio», con Edizioni Creativa, nell’ambito della collana «Piccole Storie» che ho la gioia e l’onore di curare per Edizioni Creativa. È un romanzo breve, la protagonista si chiama Silvia e vedremo se incontrerà il favore dei lettori come è stato per Lucia di «Una storia ai delfini». Tra l’altro, la collana Piccole Storie sta ricevendo molti manoscritti e credo esistano i presupposti per pubblicazioni di ottimo livello.
intervista
[..] Marinella Saiu è giornalista a RaiNews24, e ha scritto "Rubare il respiro", un libro bellissimo edito da Creativa. Ecco il link: https://www.edizionicreativa.it/book.php?indice=rubare%20il%20respiro Mi ha regalato questa intervista per [..]
Siete due scrittrici che togliete il respiro a noi lettrici…
Un bacio e un abbraccio da Sandra, che era con voi alla presentazione dei vostri romanzi a torino…
M.G. Luini afferma che «gli uomini sono più liberi. Agiscono seguendo la propria volontà, ciò che realmente desiderano … quando si adeguano a regole o cliché scomodi o che trovano banali lo fanno perché in fondo hanno in mente il loro personale benessere … La donna viene cresciuta con l’idea di essere sempre adeguata alle richieste dei genitori, del marito, dei figli, dei colleghi, di chiunque sia in relazione con lei.»
Mi permetto di dissentire. Noi uomini siamo altrettanto incatenati a regole e doveri quanto lo sono le donne, solo che la maggior parte di noi non ha ancora acquisito quella consapevolezza che le donne hanno maturato e che ci permetterebbe di emanciparci. Il maschilismo non è solo un’ideologia il cui scopo è di limitare il potere femminile, ma un vero e proprio sistema in cui i ruoli sono ben definiti e chiunque decida di differenziarsi, uomo o donnna che sia, viene emarginato.
Un esempio? Per anni il padre nella famiglia è stato quello del «se non fai il bravo quando torna a casa lo dico a papà», dispensatore di premi e punizioni, unica fonte di mantenimento economico della famiglia al punto che ancora recentemente a un padre che ha sempre fatto il casalingo e si è sempre occupato di figli e casa, mentre la moglie — dirigente — lavorava, un giudice, all’atto della separazione ha dato del fallito, rifiutandosi di affidargli i figli e la casa, come avrebbe fatto per una donna, e ovviamente l’assegno di mantenimento da parte dell’ex-moglie.
Così, se oggi le donne rivendicano e giustamente ottengono un ruolo nel mondo del lavoro, agli uomini è negato quello nella famiglia se sconfina in un ambito che ancora si considera prettamente femminile. La cultura del mantenimento che ancora esiste nei divorzi a favore delle donne ne è un esempio. Nessuna parità, nessuna equità. La giustizia è asimmetrica, quando le situazioni si invertono.
E ancora, la moda. Un uomo è elegante se porta giacca e cravatta, possibilmente di colori sobri, possibilmente senza fronzoli. Una donna può essere elegante con qualsiasi cosa addosso. In molti palazzi della politica non entri se non hai la giacca, ma alle donne non è richiesto certo il tailleur. In molti ristoranti di lusso devi avere la cravatta, non importa quanto sei elegante. Ma solo gli uomini, ovviamente.
Se vai in un negozio a comprare un maglioncino o una camicia, quelle da donna hanno mille tonalità di colori. Stessa marca, stesso modello ma per uomini? È già molto se c’è l’azzurro e il beige. Il blu a volte, a volte il nero o il bianco. Verde pastello? Giallo? Rosa???? Scherziamo? Per un uomo?
Non ti piace il calcio? Non sei un uomo. Non ti piacciono le armi e la violenza? Non sei un uomo. Ti piace cucinare ma non sei un cuoco, un professionista? Mmmm…. sicuro di essere un maschietto? Ti piacciono i fiori? Sei gay? E poi parliamo di vincoli sociali per le donne!
Qualche tempo fa ho partecipato a un matrimonio. Beh, ci sono andato in kilt, uno splendido abito da cerimonia scozzese che avevo preso a suo tempo in Scozia. Lo avevo, mi piaceva, perché non usarlo? Non è la sola “gonna” per uomini che esiste nel mondo. Pensate alla giallaba (o galabìa) araba o al kimono giapponese. Ce ne sono di stupendi, ma provate a uscire ed andare vestiti così in un ristorante. Una donna in kimono suscita curiosità e apprezzamenti, un uomo in kimono imbarazzo, se occidentale. Bisogna avere coraggio, ve lo assicuro.
Se poi ti piacciono i bambini e sorridi a una ragazzina che ti guarda incuriosita al supermercato, sei probabilmente un pedofilo. E se una madre uccide il figlio che piange, è una povera vittima della società, ma se lo fa un padre è il classico uomo violento, come violento è un uomo che picchia una donna, ma una donna che picchia un uomo, cos’è? Ma sicuramente legittima difesa!
Ipocrisie. Come quella che ha visto l’ISTAT vedersi commissionare una ricerca sulla violenza di genere che considerasse fin dall’inizio solo la violenza maschile sulle donne e non viceversa. Facile così ottenere solo i dati che si vogliono ottenere. Basta ignorare gli altri. In Australia e in USA la ricerca è stata fatta a 360° e… sorpresa: quasi la metà delle violenze domestiche sono risultate di donne che picchiavano gli uomini! Ma come è possibile che una donna picchi un uomo? Un uomo è sicuramente più forte! Davvero? E perché? Mica sono tutti scaricatori di porto, oggigiorno. È da un po’ che l’essere umano non deve lottare fisicamente per sopravvivere, per cui i muscoli oggi sono più ambito degli appassionati di palestre e campi sportivi che una caratteristica di genere.
E la pubblicità? Mamme, mamme, mamme! E i papà? Rari, quasi sempre visti come parassiti della casa, imbranati in cucina (risolvono tutto con i piatti pronti), disordinati e confusionari. E sul lavoro? Beh, qui dovrebbero ancora essere gli uomini a fare la parte del leone, a causa dei residui di maschilismo che ancora sopravvivono qua e là. E invece no. C’è stata una retata della polizia? Alla conferenza stampa guarda caso le poliziotte sono messe in primo piano, come in prima fila sono nelle sfilate militari. Non mescolate, in un perfetto esempio di parità, dove davvero non conta il genere ma solo le qualità individuali. Si fa a gara per far vedere che non siamo più maschilisti e così facendo accentuiamo ancora di più le differenze di genere. Una donna pilota? Merita un servizio in tv! Perché? In cosa è meglio dei suoi colleghi? Oggi non ci sono più ostacoli maschilisti a determinate carriere. Se una donna vuol diventare Capo della Polizia o entrare nelel Frecce Tricolori deve solo farsi lo stesso mazzo dei suoi colleghi maschi. E allora perché tanto stupore?
Con il femminismo si sperava in uan società paritaria, in cui contasse solo l’individuo, e invece questa società sembra fare a gara per creare enclavi rosa: e la collana rosa dedicata alle scrittrici, e le quote rosa, e gli eventi rosa off-limit agli uomini. Il peggio di quello che hanno saputo fare gli uomini, in questo sì che le donne si stanno dimostrando nostre pari: hanno scoperto le lobby.
Quando vedremo una società dove il genere non conterà più veramente? Dubito avverrà in un futuro prossimo. Il femminismo si sta trasformando nel maschilismo del terzo millennio e invece di puntare alla parità punta al privilegio. Iniziative e slogan aprono un baratro ancora più grande fra i generi in una sorta di guerra fra i sessi che tutto fa meno che portare al rispetto reciproco. Ipocrisia, spesso strumentalizzata per ragioni politiche, nella speranza di raccattare qualche voto in più.
Per concludere, ma potrei andare avanti per ore con casi specifici ed esempi concreti, noi uomini siamo messi molto peggio delle donne, perché loro almeno se ne sono rese conto di essere discriminate. Noi, no.
In effetti siamo spesso ancorati a obblighi o retaggi che limitano espressione e libertà. Incatenati. O meglio, giudicati, il che è peggio. La mia impressione è che si raggiunga una certa consapevolezza di queste catene fastidiose e per un certo tempo inconsapevoli dopo i 30-35 anni, ma forse è solo ciò che è capitato a me.
E’ discriminante sentirsi discriminati, vale per donne e uomini. Vale per chiunque si senta individuo e non solo parte di una massa che DEVE essere per forza in un certo modo.
E’ faticoso lasciare andare il freno imposto dalla nostra storia, da ciò che abbiamo addosso per cultura ed eredità.
Una donna che ama il sesso e lo dice ha un comportamento dubbio, un uomo è quasi “più normale” degli altri. Però è vero che anche l’uomo è spesso compresso, obbligato a fare e dire e sentire. Il tuo commento è vero e restituisce all’uomo l’immagine che percepisco ma che spesso è negata dall’uomo stesso, che rifiuta di afferrare un pezzo di libertà, qualunque sia, perché deve fare così.
Scusa, non ho firmato. Il commento non è anonimo, sono MariaGiovanna Luini
Hai perfettamente ragione quando dici che una donna che ama il sesso e non lo nasconde viene considerata negativamente, spesso proprio da altre donne, ma è anche vero che oggi è impensabile che un uomo possa chiedere esplicitamente a una donna che gli piace se vuole fare sesso con lui. Nel migliore dei casi verrebbe considerato un maleducato, un rozzo, nel peggiore si prenderebbe una denuncia per molestie sessuali.
La nostra società impone il corteggiamento e la dimostrazione di una certa robustezza economica tramite cene e regali possibilmente costosi, anche se entrambi si sa benissimo qual è l’obiettivo finale. Ma se lo si dice senza ipocrisie, se si cerca di saltare i preliminari, apriti cielo. Noi siamo quelli che pensiamo sempre coi genitali.
E ancora: se da una parte si pensa che una donna bella non possa far carriera perché anche intelligente ma solo perché “l”ha data” a quello giusto, dall’altra un uomo che non ama girare intorno alle cose e va dritto a ciò che gli interessa in ambito sessuale è solo un buzzurro, non può anche essere intelligente, sensibile, amabile.
Insomma, ce n’è per tutti, uomini e donne.
Questa è la società dell’ipocrisia, dove la prostituta da strada è una “donnaccia” mentre la velina che scala la RAI arrampicandosi su una scalinata di materassi per poi magari agganciare il riccone di turno con tanta grana e pochi scrupoli, merita le copertine dei giornali.
Difficile argomento, anche se personalmente lo trovo bellissimo e “facile” (cioé potenzialmente privo di ogni sovrastruttura). Nei miei romanzi descrivo il sesso così come lo vedo, come mi capita di viverlo, e la domanda frequente alle presentazioni è se lo scriva perché lo conosco e mi piace. Ogni domanda è legittima e apre discussioni importanti, con contenuti che mi porto dietro nella vita, ma a volte l’implicazione della domanda, e della mia risposta, è un giudizio, che può essere positivo o negativo ma esiste.
Per saltare ad altro argomento (più o meno), si parla di scrittura femminile e maschile sottintendendo che esista una differenza di genere da mettere in evidenza. Non credo esista: si scrive e ciò che viene fuori piace o meno, la sensibilità dipende dalla persona e dal modo di vedere lo stile, ma isolare in categorie la scrittura “al femminile” o “al maschile” è riduttivo e improprio.
Condivido in pieno, Maria Giovanna. Scrivere è un modo di esprimere se stessi, la propria sensibilità, i propri sentimenti, prima ancora che le proprie idee e convinzioni. Non esiste uno stile maschile o femminile. Ogni scrittore è un caso a sé e non può essere categorizzato. E non solo in base al genere, ma neanche in base all’orientamento sessuale, all’età o all’etnia.
Auguro a te e al tuo libro tanta fortuna. Un abbraccio.
Grazie per l’ospitalità e per la chiacchierata. Un abbraccio a te!
Interessanti i vostri commenti. Dario mi conosce e sa cosa penso. Quel che mi interessa dire è che non credo esista una letteratura maschile, una letteratura femminile, una letteratura omosessuale. Esiste soltanto buona o cattiva letteratura.
Saluti a entrambi.
marinella
Un abbraccio e bacio a Sandra: grazie per le belle parole.
marinella