Wharf Jeremie, Missione Belem, Haiti


La stradina si dipana fra le baracche della bidonville. Sembra tracciata da un urbanista invisibile. Una vera strada, carrabile, fra rigagnoli e macerie abitate: in assenza di acqua-luce-fogna-scuole-tombini-telefoni-trasporti, é l’unico servizio pubblico disponibile qui al Wharf. Infinite facce nere la abitano, come il cortile di casa.

Cammino lentamente, senza dare importanza alla telecamera accesa. Raccolgo immagini che utilizzerò per raccontare. Registro mentalmente scene sconvolgenti. L’inferno non dà assuefazione. Mi attiro sguardi interrogativi. Qui al Wharf le persone devono essere abituate al ruolo di fenomeni da baraccone. Qualche giorno fa, una troupe altoatesina si è rifiutata di filmare l’orfanotrofio sulla punta, perché era «troppo bello e non si vede la povertà». Se un giorno si trovasse qui il petrolio, il turismo umanitario perderebbe una meta gettonata.

Ci si lava, si evacua in pubblico. Esiste una precisa etichetta al riguardo, come in tutte le congregazioni umane. Il gesto di liberarsi accade sugli argini di pattume secco del fiume-fogna, o nella spianata fra le baracche e la costa. L’essere umano stabilisce una distanza, anche breve ma sempre netta, per questi ambiti destinati ai bisogni. La persona si volta verso gli spettatori. Si accovaccia. Resta così per diversi minuti. Ignoro come si puliscano. Senza acqua né carta igienica, useranno le mani. Forse la sola sinistra, come nei paesi arabi. Immagino che fare i bisogni non sia un gesto frequente, se non hai la dissenteria, perché qui si mangia poco, e si beve anche meno.

Se incontri il loro sguardo in questi frangenti, te lo restituiscono divertiti, trionfanti. “Vedersi” è una marachella, una implicita presa per i fondelli. Sembra che dicano: aspetta, che fra un po’ tocca a te. Maiali neri, di ogni dimensione, assicurano la pronta rimozione dei trofei. Migliaia di deposizioni, e paradossalmente neanche un accenno di puzza specifica di feci, ovunque giri il vento.

La ragazza è sul ciglio della strada. Si lava. Avrà sedici anni, forse venti. È graziosa. I capelli sono lucidi, ordinati. A parte qualche vecchia sciatta e sdentata, tutte le femmine di tutte le età sfoggiano teste curate di acconciature finemente intrecciate. Ha con sé una bacinella. Ha trasportato il suo secchio d’acqua dalla strada principale. Ha dovuto pagare quell’acqua destinata alla toilette. Intravedo del bagno schiuma. Persino al Wharf, l’igiene è anche una scelta.

È più nuda che vestita. Le si intravedono le minne generose. Si accorge del mio sguardo. Reagisce con pudicizia. È inteso che lei debba essere lì, in quello stato. È inteso che possa mostrarsi, nel rispetto delle regole sociali. È anche inteso che debba cercare di coprirsi, e che gli sguardi debbano rivolgersi altrove. A un paio di metri, a sinistra, tre bimbette. Accanto a loro una sentinella: un signore sulla trentina. Un marito, o un fratello maggiore.

Attorno a questo microcosmo più intimo, almeno una trentina di altre anime, staticamente affaccendate. Due donne chiacchierano, una ha un cesto in testa. Gli uomini ci rivolgono sguardi più duri. Qualcuno rassegnato. Leggo consapevolezza e frustrazione per il proprio stato. Non attraversano la strada. Non chiedono lavoro. Raramente è servito, e ci perdi in dignità.

Quattro signori stanno giocando a carte. Volano ingiurie e recriminazioni, come in ogni partita che si rispetti. Uno è tarchiato, calvo, magliettona a righe, senza maniche. Uno di spalle è a torso nudo. Uno è il sosia di Bob Marley, versione albero natalizio. Sui capelli e sulla barba porta appese una quantità di mollette colorate, da bucato. A ogni punto perso, una molletta. Nessuno lo deride. La sanzione sociale è già pubblica, espressa nella forma localmente codificata.

Un maiale si scansa al mio passaggio. È nero, e ben pasciuto. È l’unico animale felice di alimentarsi di fogna. Credo che non sarebbe sano farne salsicce.

I bambini hanno interrotto i giochi, ci guardano. Fra me e loro, una distanza siderale, come fra la bidonville e il volo Air France sulle nostre teste. Non si vedono palloni, a Wharf Jeremie. Con che giocano, i bambini?

La Missão Belém è un’iniziativa nata nel 2005 in Brasile, e si propone di dare una famiglia per chi non ha famiglia. La prima casa è sorta a Jarinu, nello Stato di San Paolo, con otto persone accolte. Oggi è presente con cento case, semplici, dove si vive la solidarietà. La Missione è stata fondata dalla missionaria Cacilda da Silva Leste e da Padre Giampiero Carraro, per vivere in comunione con i fratelli che soffrono e abitano sulla strada. Le case della Missione sono in maggioranza nello Stato di San Paolo, ma ne è stata aperta una anche ad Haiti, Paese sconvolto dal terremoto e da una realtá fino ad oggi terribile; un’altra, in Italia, che accoglie alcuni brasiliani, e una terza in Bosnia, dove la guerra ha prodotto 200 mila morti, soprattutto giovani, che dà assistenza a 150 poveri, specialmente anziani abbandonati.


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