Guerre, carestie, catastrofi, incidenti accadono ogni giorno, ovunque nel mondo, ma la nostra reazione a queste notizie non è sempre la stessa. Sembra che solo l’esperienza diretta possa davvero farci comprendere la gravità di certe situazioni. Vedere i rottami di un incidente d’auto ad alta velocità non ci rallenta; assistere alla malattia di un amico, il cancro ai polmoni dovuto al fumo, non ci dissuade dal continuare a fumare; osservare il dolore di chi vive una guerra o una carestia non genera sempre empatia verso i rifugiati.
Qualcuno una volta ha detto che il cuore umano è troppo piccolo per sopportare tanto dolore. Così, un singolo evento che colpisce una persona, come essere sepolti vivi sotto le macerie della propria casa a causa di un terremoto, può incollarci al televisore fino a quando non vengono salvati, ma poi la notizia che altre mille persone sono morte nello stesso terremoto ci lascia indifferenti. È solo un numero, troppo grande da concepire. Se i morti sono in un Paese lontano, l’impatto emotivo è ancora minore.
Viviamo attraverso esperienze dirette e spesso le interpretiamo superficialmente, come i terrapiattisti che, non vedendo la curvatura del pianeta, rifiutano l’idea che sia sferico. Finché non ci accade direttamente, ci sentiamo invulnerabili, credendo che tali tragedie non ci toccheranno mai, e questo si riflette nel modo in cui giudichiamo gli altri. Vediamo rifugiati, sporchi e stanchi, ma con un cellulare di ultima generazione, e li giudichiamo immediatamente, senza pensare che anche noi, se fossimo coinvolti nello stesso conflitto, potremmo ancora avere quel telefono in tasca. Questo non cambia il fatto che avremmo perso tutto il resto. Pretendiamo che chi soffre lo faccia con dignità, ma non per loro stessi, piuttosto per noi, perché vedere povertà, sporcizia, sofferenza ci disturba, e preferiamo distogliere lo sguardo, ignorando che non è una punizione divina o colpa di quelle persone essere in quella situazione, ma una circostanza sfortunata, fingendo di non sentire quella voce interiore che ci avverte che domani potrebbe succedere anche a noi.
Questa è in effetti la peggiore versione di noi stessi. La maggior parte, apparentemente, mostra solidarietà, finge di prendere a cuore la situazione, ma in realtà siamo fisiologicamente egoisti e fondamentalmente ipocriti. Continuiamo le nostre vite tranquille, cercando di non pensare che per quelle persone, prima di essere catapultate in un destino incerto, la vita scorreva normalmente.
Alziamo muri, recinzioni, picchiamo chi cerca di passare, li rimandiamo indietro nel loro inferno se riescono a passare, e, quelle poche volte che li accogliamo, li giudichiamo continuamente, evitando di dare loro una vera possibilità. Non affittiamo loro una casa, non diamo loro un lavoro, ma poi ci lamentiamo se si arrangiano come possono. Di nuovo: egoismo e ipocrisia.
Guardare questi eventi attraverso i telegiornali non cambia nulla, anche perché gli effetti speciali dei film e della televisione sono ormai molto più affascinanti della realtà. Le atrocità della guerra, la fame delle carestie, le torture di una dittatura non sono solo immagini. Sono suoni che ci rimangono impressi, l’odore di carne bruciata e i gemiti dei feriti e mutilati ci si conficcano nella spina dorsale se li viviamo in prima persona; sono i crampi che ci piegano in due perché non mangiamo da una settimana e siamo costretti a bere acqua sporca o salata. Se non viviamo queste esperienze, è come guardare un film senza volume, incapaci di sentire i dialoghi o la musica di sottofondo. Solo immagini.
E mentre tutto questo accade, il mondo si confronta sui social network con parole di odio, giudizio, arroganza, ignoranza. Perché se non vedi, non esiste; se non provi, non senti; se non vivi, non puoi capire. E la cosa peggiore è che le persone che giudicano, odiano e non capiscono, non si sentono nemmeno in colpa per questo. Questo è ciò che fa più male di tutto.
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