Stamane, alle 4:15 di mattina, è morto presso l’ospedale R. Silvestrini — uno dei due presidi ospedalieri del Polo Unico Ospedaliero di Perugia — uno dei due anziani che ieri erano stati ricoverati in gravissime condizioni per essere stati sottoposti a enteroclisma, ovvero a pulizia dell’intestino, presso l’ospedale di Todi. Ai due anziani, infatti, era stata somministrata della formaldeide anziché del sorbitolo. Secondo la USL, tale errore è da imputare alla similarità di alcuni flaconi scambiati nelle fasi di approvvigionamento. L’altro uomo, invece, è stato operato ed è attualmente in rianimazione.
Non è la prima volta che succedono casi del genere. Infatti, è sufficiente scambiare un flacone o un tubo di erogazione per trasformare anche un semplice intervento ambulatoriale in un operazione a elevato rischio. In genere questi incidenti, come d’altra parte la maggior parte degli incidenti in ambienti nei quali esistono protocolli precisi — un esempio ne sono gli incidenti aerei — non avvengono mai per una sola causa, ma sempre per una successione di cause, alcune incidentali e accidentali, altre dovute a fattori umani. D’altra parte in ambienti dove gli operatori sono sottoposti a carichi di lavoro e a tensioni fortissime, l’errore umano non è una possibilità: è una certezza.
Per questo motivo in queste situazioni si adotta in genere tutta una serie di accorgimenti proprio per ridurre al minimo l’errore umano. Sembra tuttavia che questo non sia vero negli ospedali italiani. Probabilmente perché non c’è alcuna legge che stabilisca una normativa in tal senso. Ma perché è sempre necessario che debba esserci una legge affinché coloro che sono responsabili di un certo sistema adottino precauzioni elementari e di semplice realizzazione? Perché bisogna sempre aspettare che ci scappi il morto? E quali sono questi semplici accorgimenti?
Un esempio lo abbiamo nelle pompe di benzina. È piuttosto difficile mettere del gasolio nel serbatoio di una macchina che va a benzina, perché il beccuccio della pompa del gasolio ha un diametro maggiore del foro di ingresso di un serbatoio per la benzina. Purtroppo non è vero il contrario, ovvero nulla impedisce a un automobilista distratto di riempire di benzina il serbatoio di un diesel. Per fortuna la benzina verde non rovina i motori diesel, mentre il gasolio danneggia sempre quelli a benzina. In ogni caso le pistole di erogazione dei due tipi di carburante hanno colori molto differenti, per cui, in linea di massima, sbagliarsi non è poi così frequente.
Questo esempio evidenzia due meccanismi che permettono di ridurre l’errore umano: il colore e la forma. Due flaconi identici e con la stessa etichetta, che si differenzino solo per una scritta o un simbolo, non sono certo elemento sufficiente di distinzione se il loro contenuto è molto diverso ed è assolutamente necessario evitare di scambiarli. Sarebbe sufficiente dare ai flaconi stessi — non alle etichette — colori differenti e già il rischio di uno scambio si ridurrebbe considerevolmente. Se poi si stabilissero alcuni colori standard per i flaconi che indicassero se il liquido è tossico, altamente infiammabile, corrosivo o semplicemente innocuo, la possibilità di errori umani verrebbe ulteriormente ridotta.
La forma, invece, può essere utilizzata non solo per evidenziare ulteriormente la differenza nei contenuti dei due contenitori, ma anche per rendere del tutto incompatibili determinate operazioni, come ad esempio collegare una bombola di ossigeno invece che di gas per anestesia a una bocchetta o a un rubinetto. Si potrebbe agire sul diametro oppure sulla filettatura, oltre che, anche qui, segnalare gli estremi da collegare con anelli colorati (non con della vernice, che può scrostarsi).
In pratica si deve giocare su due elementi: un riconoscimento immediato che non richieda di leggere sempre e comunque un etichetta o delle istruzioni, e un fattore di incompatibilità strutturale, che prevenga fisicamente l’avverarsi della causa principale di un possibile incidente. Mettere in atto queste precauzioni non richiede ingenti investimenti economici né competenze specialistiche particolari: solo buon senso. Ma forse è proprio quello che manca in chi dovrebbe e potrebbe prendere queste decisioni.
C’è infine un altro accorgimento che si potrebbe adottare. Nell’ingegneria aerospaziale si chiama tracciamento degli incidenti mancati. Come ho già detto, in genere un incidente è quasi sempre dovuto a una sequenza di concause. Se tutte queste cause si avverano tranne l’ultima, l’incidente non avviene: ci si va solo molto, molto vicini; tanto vicini, in effetti, da accorgersene, ovvero da rendersi conto di quello che si è rischiato. A questo punto sono possibili due comportamenti: il primo è tirare un sospiro di sollievo, cercare di evitare di rendere pubblica la cosa — in genere lo si giustifica dicendo che si vuole evitare il panico — e sperare che non succeda più; il secondo è analizzare cosa è successo e modificare i protocolli o mettere in atto iniziative specifiche per evitare che una o più di queste concause si verifichino. Basta infatti agire solo su uno o due punti per spezzare una catena ed evitare il ripetersi della sequenza, non è necessario cercare di impedire l’intera sequenza.
In ingegneria aeronautica si adotta appunto il secondo approccio. Gli incidenti aerei, infatti, per quanto abbiano notevole risonanza quando avvengono, non sono molto frequenti. Se questo da una parte è sicuramente un bene, dall’altra produce un numero troppo limitato di casi da analizzare. Diventa così difficile identificare quelle iniziative che dovrebbero essere messe in atto per impedire che tali situazioni si ripetano. Se invece si tiene traccia anche degli incidenti mancati, si può arrivare ad aumentare anche di un fattore dieci la statistica a disposizione e ci si può quindi avvalere di un numero sufficiente di dati per prendere dei provvedimenti efficaci.
Purtroppo in altri ambienti, soprattutto in quelli pubblici, come negli ospedali italiani, eventuali problemi che non abbiano prodotto conseguenze evidenti vengono in genere taciuti, anche perché sono spesso collegati ad errori umani e quindi c’è sempre qualcuno che teme eventuali conseguenze personali. Così un’importante fonte di informazione viene cancellata fino a che, come nel caso riportato all’inizio di questo articolo, avviene l’inevitabile. Purtroppo qui non servirebbe neanche agire sul solo piano legislativo. Si tratta infatti di un problema culturale e quindi, come tutti i problemi culturali, richiede un cambiamento sostanziale nel modo di pensare e di agire degli addetti ai lavori, cosa che fisiologicamente non potrà avvenire in tempi brevi. Ovviamente tutto sta, come al solito, ad iniziare. Speriamo che questa volta qualcuno lo capisca, almeno a Todi, invece che affannarsi a cercare le solite giustificazioni o a riversare tutta la colpa sull’infermiera di turno che, tra parentesi, ha tentato il suicidio per la disperazione.
Mia moglie lavora in un grosso ospedale, e mi diceva che lì questo tipo di procedure esistono. Nel caso specifico i due prodotti seguono trafile diverse, magazzini, persone, giorni di consegna, procedure di ordinazione: tutto diverso.
Inoltre i flaconi sono facilmente identificabili.
Andrea
Resta quindi da domandarsi come è possibile che un flacone di sorbitolo e uno di formaldeide presso l’ospedale di Todi fossero sostanzialmente identici. Ho visto le foto e la differenza era solo un piccolo teschio nero sull’etichetta di quello contenente il liquido velenoso. Oppure come è stato possibile introdurre erroneamente nel catetere venoso un sondino per l’alimentazione causando la morte di una paziente presso l’ospedale di Ponte a Niccheri.
O ancora, come ha fatto un paziente a introdurre in una camera iperbarica uno scaldino causando il rogo al Galeazzi in cui morirono 11 persone.
Evidentemente non in tutti gli ospedali si adottano queste misure, soprattutto quelle che studiano le caratteristiche dei vari strumenti in modo che sia fisicamente impossibile usarli nel modo scorretto.