Le mie prime riflessioni sull’esistenza risalgono all’ultimo dopoguerra dopo un’infanzia di paure e privazioni che ogni conflitto inevitabilmente comporta, lasciando poco spazio ai sogni.
Nel ’54 arrivò la TV: un solo canale in bianco e nero e chi possedeva un televisore invitava la gente ad ammirare la strabiliante novità. Non c’era il telefonino né il PC, e l’automobile era un privilegio di pochi…
Ma noi non eravamo soli, avevamo quel prezioso supporto e punto di riferimento che era la Famiglia, luogo protetto e sicuro dove diventare serenamente maggiorenni e consapevoli che della vita fa parte anche il dolore e il coraggio per gestirlo, convinti che la ricchezza non è il possesso di beni ma la capacità di ridimensionare i bisogni e l’essere felici nel poter soddisfare quelli essenziali. A nessuno pungeva l’uzzolo di andarsene di casa, se non per seri motivi o formare una nuova Famiglia. Eravamo meno ricchi ma certamente più maturi.
Da allora sono passati anni luce, il benessere nel frattempo conquistato ha prodotto la parallela mutazione dei sentimenti. Anche le vecchie generazioni sono state traghettate in questo Bel Paese dove i ristoranti, le pizzerie, i teatri sono sempre affollati —ma dicono che c’è la crisi — le palestre per rassodare i glutei vanno alla grande, si viaggia per ristorare l’anima e nutrire lo spirito, le automobili ingolfano le strade, si spendono milioni in hi-tech e prodotti cosmetici, le aziende alimentari sfornano «salti in padella» per una popolazione di «single» belli, sodi e depilati, che non si fanno mancare nulla in materia di svaghi, liberi da ogni legame impegnativo, lieti di volar da fiore in fiore.
Questa è la loro stagione. Di conseguenza esistono persone «single» loro malgrado, che soffrono con dolore e poca rassegnazione la propria involontaria solitudine. La maggioranza della popolazione anziana è donna, spesso sono le vedove, ormai libere da impegni familiari, che si aggregano, si organizzano, vanno a teatro, viaggiano, giocano a bridge: si sono adeguate. L’uomo anziano, vedovo e solo, non se la passa altrettanto bene, non si aggrega, varcata la soglia della pensione è più fragile, è disorientato, passa il suo tempo sulle panchine, lo sguardo perso nel vuoto. Per questo muore prima. Ma a volte gli anziani allevano e badano ai nipoti. Chi alleverà i propri figli quando le scorte di nonni saranno esaurite?
L’attuale società dell’egoismo ha i conti in rosso verso chi meriterebbe una costante presenza affettiva: delega il nido aziendale, la baby-sitter, il centro anziani, la badante o… la televisione a farne le veci. O semplicemente evita di fare figli e spedisce i vecchi all’ospizio. Chi può garantire oggi la solidarietà, l’amore e il calore umano che regnava tra le pareti di casa? Spesso il motivo di questa defezione della Famiglia, è guadagnare abbastanza danaro per godere di tutte le opportunità che il consumismo mette a disposizione. Eppure siamo sempre più poveri.
La grande povertà del nostro tempo si chiama solitudine, è la povertà dei paesi ricchi, cosiddetti «sviluppati», che sostituisce con l’evasione la mancanza di amore. La società è un marchingegno che funziona se gli ingranaggi girano in modo coordinato, dove il concetto di libertà ha il suo limite nella responsabilità di ciascuno ad assumere i propri compiti nel ruolo che gli compete, bilanciando l’ossessiva rivendicazione di «diritti» con il giusto contrappeso di doveri.
Se gli adolescenti allagano le scuole, sfrontati e strafottenti, o fanno uso di alcol, sfracellandosi sulle strade, o si drogano, non dobbiamo meravigliarci: cercano senza trovarlo il loro punto di riferimento, sono soli nell’età in cui hanno più bisogno di ascolto, dialogo, sostegno. La «paghetta» non basta. Le ragazzine che in passato sognavano un marito e tanti bambini, oggi aspiranti letterine, sognano un calciatore con tanti milioni, perché questo è il modello loro proposto.
Il ruolo esclusivo e impegnativo di madre, educatrice, conduttrice dell’Azienda Famiglia, oggi è vacante. La donna lavora, si sente finalmente «realizzata» (o no?) sa che lo «status» di separata è meglio di nubile, specie dai trent’anni in poi, e vuole sposarsi, ma può dimostrare al marito che di lui può fare a meno e spesso lo fa, chiedendo la separazione anche per futili e sanabili motivi, o semplicemente perché l’amore è finito. E intasca l’assegno che il tapino, cacciato di casa, è costretto a versarle.
L’alternativa è la convivenza, ovvero il precariato dell’amore, che consente il ricambio di partner – ora si chiama «compagno» – evitando spese e burocrazia. O l’«amore a mezzo servizio»: metà settimana col compagno, l’altra metà a casa con i genitori che le alleviano le fatiche del quotidiano. Se non ha il compagno può sempre contare sullo speranzoso schiavetto di turno che la preleva con la macchina e la riporta a casa dopo la serata al ristorante o a teatro – è o non è il sesso debole? – e vive la sua beata «singletudine» con brio e spensieratezza.
L’ancestrale vocazione della donna ai lavori di casa oggi la rende vittima di stress domestico a scapito della carriera. Se un solo stipendio non basta al menage familiare, l’idea di un riconoscimento economico alle casalinga-madre-moglie (a tempo pieno) scatenò un putiferio da parte di «lavoratrici» che reclamarono il «diritto» al secondo stipendio… È così che la casalinga-madre-moglie (a tempo pieno) è l’unica cittadina che lavora gratis.
In questa baraonda, il crollo della Famiglia viene attribuito alle «mamme italiane» colpevoli di stirare le camicie e preparare la cena ai figli scapoli o licenziati dalla moglie: spregevoli «mammoni»! Ma le mamme esistevano anche quando ci sposavamo presto e per tutta la vita…
Un contratto prematrimoniale cautelativo è disdicevole e fieramente avversato dall’ipotetica nubenda, arroccata in difesa dei suoi privilegi. I politici forse non sanno, incentivando all’acquisto della prima casa, che non è la mancanza di alloggio che induce al celibato, ma la mancanza di certezze e la sconcertante realtà di certe leggi che favoriscono le donne in maniera sbilanciata.
Se è vero che in passato le donne erano soggette al marito, mogli e madri al servizio della Famiglia, è altrettanto vero che le «colpe» dei padri ricadono sui figli, uomini d’oggi, smarriti e disarmati, capri espiatori di colpe non commesse, uomini soli tra novelle Amazzoni in questa società dove gli unici a sognare il matrimonio sono i gay, con tanto di bambolotto contrabbandato: la Spagna insegna.
Sarebbe interessante conoscere la situazione sentimentale di quei giovanotti che vanno a scaricare le loro frustrazioni allo stadio, menando botte e scaraventando in campo insieme ai petardi, la loro infelicità. Cinquant’anni fa i ragazzi allo stadio portavano i campanacci delle mucche e fischietti vari, felici di far chiasso ad ogni gol. Ricordo che al «Campo di Marte», a Firenze, durante l’intervallo girava per tutto il perimetro dello stadio, un pony col calessino agghindato di bubboli, campanellini e nastri colorati, guidato da una bella ragazza, ed era una festa per tutti andare a vedere la partita.
Oggi ci chiediamo quale motivo scatenante può esservi alla base del malessere che circola in ogni settore, allo stadio come nella Famiglia, nel dilagare della prostituzione e malattie collegate (dopo la legge Merlin del ’58) nella mostruosità della pedofilia, nella «tolleranza» di qualunque malefatta, nel famigerato «buonismo» che consente ogni deprecabile condotta con la certezza di non doverne rendere conto a nessuno. Cosa è successo in quest’ultimo mezzo secolo?
Era questa la «libertà»? Eppure l’umanità è la stessa fin dalla Creazione, in un contesto sempre più degradato, anche attraverso il flusso di informazioni mediatiche, stimoli comportamentali e correnti di pensiero alla ricerca della trasgressione, del divertimento sopra ogni altra cosa, della forma perfetta, dell’apparenza senza sostanza come unico valore.
A margine di questo scenario c’è il «Paese silente» della gente ammutolita che vive il nostro tempo nella normalità, che crede in un senso più alto della vita e in più alti valori, che non aspira alla notorietà né alla ribalta televisiva, ma che soffre la propria emarginazione dalla cosiddetta «società ufficiale» oltre la quale esistono Famiglie sane, adolescenti bravissimi, giovani di cui andare orgogliosi e ottime madri di Famiglia che vivono la loro quotidianità senza fare notizia come le nullità dei vari «reality». Un’Italia non rappresentata e senza voce, che vorrebbe gridare ma non può, la sua nostalgia di una maggiore moralità, di una società più rigorosa e rispettosa della sensibilità e dei sentimenti altrui.
Auguriamo al dolcissimo Papa Ratzinger una «buona pesca» nell’«acqua salata» di questo mare oscuro in cui l’umanità sta navigando, non solo nel nostro Bel Paese. E così sia.
Hai proprio ragione!
Parole sante!
Le condivido tutte, una ad una.
Complimenti per l’analisi profonda e azzeccata del nostro tempo.
Non c’è nulla di male a rimpiangere i valori del passato: i valori non passano mai di moda e non invecchiano.
Io credo di potermi inserire nella categoria dell’Italia silente, che non fa notizia e che non vuole far clamore.
L’Italia silente fa solo BENE il proprio dovere e si scandalizza (sì, si scandalizza) che anche gli altri non lo facciano e cerchino soluzioni “semplici e veloci” a problemi complessi.
Quando i giovani fanno qualcosa di sbagliato NON bisogna pensare “è colpa della società” (se la colpa è di tutti allora è di nessuno); secondo me la responsabilità è innanzitutto della loro famiglia e poi anche della società.
Anch’io vivo in questa società eppure non ho mai ucciso né pestato nessuno, non mi sono mai sbronzato fino a stare male, insomma mi sono divertito tanto e sempre in modo sano e ho vissuto una bella adolescenza.
Non mi sento un “fesso” né credo di avere qualcosa in meno dei miei coetanei che evadono dalla mancanza di amore.
Ho tanti amici e molti di loro la pensano come me.
Quando in una famiglia si desidera un figlio la prima cosa che i genitori dovrebbero pensare è: “a cosa siamo disposti a rinunciare per educare correttamente nostro figlio? A quali sacrifici siamo disposti? Potremo essere sempre presenti quando lui ne avrà bisogno?”
I genitori NON devono essere dei semplici amici, ma dei punti di riferimento, degli educatori che sanno dire di no o di sì, motivando le scelte.
I genitori devono innanzitutto amare, gratificando i figli quando raggiungono dei traguardi e indirizzandoli quando ci sono delle sconfitte ma sempre lasciandoli liberi di scegliere e di sbagliare (imparando dai propri errori).
Finché eviteremo i concetti di “sacrificio” e “rinuncia” come la peste bubbonica, fino ad allora, non potremo sperare in famiglie unite e rifugi dalle tempeste della vita.
Zingaro.
P.S: e non diteci che siamo moralisti o bigotti solo perché crediamo in valori sani!
Condivido tutto quello che hai detto, Zingaro. Solo una piccola aggiunta. Oltre ai «sì» e ai «no» motivati cìè anche quella che nel mio libro «Le 10 Regole dei Buoni Genitori» ho chiamato «la terza via», ovvero quella dell’alternativa.
La terza via vuo dire questo non lo puoi fare, però vediamo insieme se si può fare qualcos’altro. All’inizio il genitore propone l’alternativa, poi, col tempo, è il bambino stesso che di fronte al «sì» o al «no» valuta la possibilità di fare una terza scelta.
Questo aiuta il piccolo a crescere imparando ad affrontare i problemi in modo differente, a non autolimitarsi, a guardare oltre l’ovvio, ad usare inventiva e ingegno per raggiungere comunque l’obiettivo senza dover necessariamente infrangere le regole.
Poi, ogni tanto, il genitore deve lasciare la possibilità ai figli di infrangere qualche piccola regola, per vedere cosa succede, ma assumendosene la responsabilità per le conseguenze. Questo insegna il senso di responsabilità ma anche a formare uno spirito critico e non sempre ligio all’autorità a priori, ovvero a rompere gli schemi.
Infine gli errori: non bisogna impedire ai figli di sbagliare, ma permettere loro di fare degli errori in un ambiente «controllato», abituarli a gestire ansia, dolore, disappunto a piccole dosi, perché non potremo proteggerli per sempre.
Ottime e condivisibili riflessioni