Sembrano dei blog, ma non sono blog. Cosa sono?
No, non è un indovinello e comunque non si vince niente. Sto semplicemente parlando di tre delle più importanti testate giornalistiche in rete, ovvero il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa.
In effetti non è solo una questione di apparenze: sono ormai un paio d’anni, più o meno, che i tre quotidiani nazionali hanno riconvertito i loro siti in modo da sfruttare quanto più possibile le nuove tecnologie e i nuovi paradigmi della rete, tanto da finire per diventare a tutti gli effetti dei veri e propri fornitori di una piattaforma weblog non solo per i loro giornalisti ma anche per molti lettori.
Possiamo dunque affermare che Corriere, Repubblica e Stampa abbiano superato i canoni dell’informazione giornalistica tradizionale per entrare a pieno titolo nell’era del Web 2.0?
La risposta è no e il motivo è semplice. Manca ancora un passaggio, un atto di grande coraggio per testate giornalistiche ancora legate a meccanismi e strategie consolidate nel nostro Paese: il confronto diretto, senza riserve e senza censure, con i lettori. Di fatto è quello che fanno tutti i blogger del mondo, i quali già si confrontano in continuazione con gli altri blogger e visitatori vari attraverso commenti e trackback.
Somigliare a un blog, utilizzare addirittura una piattaforma weblog per il proprio siti, pubblicare articoli, non è sufficiente per essere Web 2.0. Trasformare il proprio sito in un luogo di co-generazione dei contenuti attraverso un processo critico di confronto culturale come avviene in Wikipedia o in altri ambienti Web 2.0, lo è. Non si tratta di un cambiamento indolore. Ci sono alcuni aspetti pratici da risolvere. Ad esempio, permettere ai lettori di commentare direttamente gli articoli vuol dire avere una struttura dedicata per gestire i commenti. Infatti un giornale ha comunque responsabilità legali sui contenuti che pubblica, e quindi una qualche forma di moderazione, per evitare affermazioni offensive o discriminatorie se non addirittura diffamatorie, è necessaria.
Non è un problema insormontabile, tuttavia. Lo si fa già per i vari forum e, ovviamente, per le classiche lettere al direttore. Il problema è semmai di risorse, dato che trasformare ogni articolo in una potenziale area di discussione aumenta in modo impressionante la quantità di commenti da gestire e quindi l’impegno redazionale. Oltretutto un evento potrebbe essere oggetto di più articoli e quindi bisognerebbe ricostruire l’intera struttura editoriale in modo da poter seguire tutto ciò che è stato scritto su un certo argomento. Non ha senso infatti commentare un singolo articolo che il giorno dopo non sarà più visibile in modo del tutto scollegato da eventuali affermazioni fatte nei giorni precedenti da cronisti e lettori sullo stesso argomento.
Ad esempio, un fatto di sangue in genere comporta una serie di articoli che si possono sviluppare nell’arco di mesi se non di anni. Un quotidiano che desse la possibilità non tanto di poter leggere gli articoli archiviati, quando di seguire l’intero sviluppo di un caso dai primi articoli che riportarono l’evento nel momento in cui accadde fino a quelli che hanno seguito lo svolgersi di un eventuale processo a carico dei presunti responsabili, fornirebbe un servizio realmente innovativo e di grande utilità sociale. Se poi ad ogni articolo fosse collegato un filone di commenti da parte dei lettori, sarebbe possibile ragionare anche sull’impatto che quel determinato evento ha avuto nella società italiana e compararlo a quelli prodotti da eventi simili. Da un punto di vista sociologico il giornale diventerebbe una sorta di memoria storica di indubbio valore.
I problemi di natura giuridica o redazionale, quindi, sono superabili e i costi legati al loro superamento potrebbero essere giustificati dall’immenso valore che il quotidiano sarebbe in grado di veicolare nei confronti della società italiana. Il problema resta quindi un’altro, ed è di natura sia editoriale che professionale. Editoriale perché i nostri quotidiani non sono del tutto super partes, anzi, spesso la loro linea editoriale è dettata da convenienze politiche di vario genere; professionale perché non tutti i giornalisti sono abituati al confronto diretto con il lettore. Alcuni, come Pino Scaccia, con la sua Torre di Babele, lo fanno da tempo. Altri hanno iniziato di recente, in genere attraverso lo strumento del blog, a confrontarsi con i lettori. Non tutti i blog dei giornalisti, tuttavia, sono aperti ai commenti e comunque si tratta di blog personali, slegati dalla collaborazione con una specifica testata giornalistica.
Il problema è quindi politico e culturale. Trasformare i tre quotidiani nazionali in ambienti web 2.0 capaci di fornire un valore aggiunto sia attraverso l’aggregazione di articoli logicamente correlati fra loro che attraverso la disponibilità a integrarli con quella che a questo punto potremmo chiamare davvero opinione pubblica, non più intermediata dai media ma esposta direttamente da parte dei lettori, rappresenterebbe un cambiamento epocale nella nostra società nella quale un’informazione davvero al di sopra di ogni sospetto è ancora al di là da venire. Ma sapranno i nostri giornali cogliere questa sfida? Sicuramente ne hanno la capacità tecnologica. Potrebbero averne anche la disponibilità economica se gli editori avessero il coraggio di superare i particolarismi e gli interessi di parte e si proponessero sul mercato in modo nuovo, come dovrebbe fare un sistema editoriale veramente civile e democratico. In quanto agli aspetti culturali, forse i tempi sono maturi, almeno per un certo numero di giornalisti, anche se qualche resistenza sarebbe fisiologica.
E allora? Allora tutto quello che noi possiamo fare è prospettare l’idea e vedere se cadrà nel nulla o verrà raccolta ed elaborata, e soprattutto chi avrà il coraggio di farlo per primo. Nella speranza che anche nell’editoria non capiti quello che già succede in altri ambiti industriali, ovvero che la scarsa attitudine al rischio che ci caratterizza finisca per trasformarci in una facile preda da parte di gruppi internazionali in una sorta di neo-colonialismo che si sta rapidamente estendendo a tutti i settori. Già oggi la maggior parte dei libri e dei film che sono offerti sul nostro mercato sono di produzione americana. La carta stampata per ora si salva perché difficilmente un gruppo editoriale americano potrebbe essere interessato a pubblicare un quotidiano in lingua italiana, dato che non ne avrebbe un significativo ritorno economico. Da noi la stampa ha più che altro una valenza di condizionamento dell’opinione pubblica in ambito politico, il che è di scarso interesse per un gruppo editoriale straniero. Nell’ambito dell’informazione televisiva, tuttavia, questo sta già avvenendo: mi riferisco al TG di SKY, molto diverso nella struttura e nei contenuti da quelli tipicamente italici. Parliamo di un ambito ristretto a una piattaforma televisiva a pagamento, è vero, ma ormai disponibile anche in rete e su cellulare. Oramai sono milioni gli italiani che hanno abbandonato i classici TG della RAI e di Mediaset per seguire quelli legati all’impero di Rupert Murdock. Che tutto ciò succeda anche per la carta stampata e i quotidiani in rete, è solo una questione di tempo. Vedremo quindi se la stampa italiana saprà raccogliere la sfida e proporsi in modo nuovo, o si arroccherà, come purtroppo è stato fatto in altri ambiti industriali, in un Fort Alamo nostrano destinato prima o poi a cadere.
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