Venerdì sera, tornando da una lunga giornata di lavoro, ho trovato ad aspettarmi un pacchetto piuttosto sottile. Ero talmente stanco che l’ho aperto d’istinto gettando solo una rapida occhiata alla busta… Provincia di Roma. Oh, bella, mi sono detto… e perché mai qualcuno dalla Provincia di Roma dovrebbe mandarmi un pacchetto? Poi ho capito. All’interno, infatti, c’era un libretto nero che aveva sulla copertina un gatto bianco con un cuore rosso e un grande sole giallo: «Il cuore nel palazzo» era il titolo, o piuttosto il “quore”, con la Q, dato che la C era stata cancellata e sostituita dall’omofono carattere ma più tondo, forse anche un po’ più intimo e misterioso. Avevo dimenticato quel messaggio via Facebook in cui l’autrice, Patrizia Prestipino, mi chiedeva se mi interessava leggerlo. Troppi pensieri, troppa stanchezza in quest’ultima settimana, o forse dovrei dire mese, o anno, o secolo, per quel che ricordo…
Patrizia è… Bella domanda… Vorrei usare il termine “amica” ma, non me ne voglia, ho troppo rispetto per quel termine per usarlo per una persona che oggettivamente conosco poco e che ho incontrato solo un paio di volte anche se, devo dire, mi è piaciuta subito molto. In Facebook è una friend, ma quello appunto, vuol dire solo che ci possiamo leggere l’un l’altra e ogni tanto lo facciamo, battibecchiamo, scherziamo, ci lasciamo andare… É il bello di Facebook, proprio come quello degli SMS di Giulia, la protagonista del romanzo di Patrizia, che dice a un certo punto:
«Il bello di un sms è che risente tutto dell’immediatezza della comunicazione. Nel bene e nel male. Perché ne conserva l’urgenza, e anche il pathos del momento. Se sei felice, è felice, se sei deluso, è deluso. E nei miei sms a me capitava spesso di essere tutte queste cose. Ma un po’ alla volta. Né con un sms ti puoi permettere pentimenti tardivi, perché quando è partito è partito e non lo riacchiappi più. Soprattutto se ti rendi conto di aver scritto cose sbagliate o, peggio, di aver sbagliato il destinatario.»
Ecco, Facebook è un po’ così, anche se un commento magari poi lo puoi cancellare, ma intanto non sai mai chi l’abbia già letto… Comunque, tornando a Patrizia, forse amica non è il termine giusto, anche se, dopo aver letto il suo libro, mi è venuta voglia di conoscerla meglio e magari passare una serata a parlare di tutto e niente lontano dal ticchettio di una tastiera o dallo scintillare di uno schermo. Ma chiamarla “conoscente” non le rende giustizia, perché per me è qualcosa di più. Forse un futuro potenziale o una diramazione del mio destino che potrebbe non realizzarsi mai. Flussi di vite che si incrociano — e io ne ho incrociate molte e sicuramente anche lei — per poi tornare a toccarsi anni dopo o forse non riavvicinarsi mai più… La vita è una successione di “sliding doors” che si aprono e si chiudono a ogni nostro pensiero e tutto sommato non vale la pena di preoccuparsene perché il tempo insegna all’uomo che non ha controllo sul suo futuro più di quanto ne abbia della sua vita… Com’era quella canzone di De Gregori? «Non ti impicciare della tua vita, che non sono affari tuoi.»
Ma torniamo al cuore nel palazzo… Ultimamente la mia vita è fatta di attese al gate di un aeroporto, annunci di passeggeri sempre in ritardo e voli mai in anticipo, lunghi corridoi illuminati dai neon attraversati in uno stato onirico di continua rimembranza, come quando guidi la macchina e ti ritrovi immancabilmente dove dovevi andare ma non sai neppure come ci sei arrivato. Togli la giacca, la cintura, il portatile dallo zaino, metti tutto nelle vaschette, passi il controllo, mostri il biglietto, sorridi, rimetti la cintura e la giacca — nell’ordine, ovviamente — infili di nuovo il portatile nello zainetto, controlli la carta d’imbarco che tanto ti avranno sicuramente cambiato il varco d’accesso e ti avvii scivolando come un pesce esperto fra le correnti di persone tutte intente a controllare la posta sui loro telefonini, lo sguardo verso il basso, che si sfiorano senza urtarsi mai. Chi lo dice che solo gli animali hanno poteri speciali? Certo, i piccioni tornano sempre a casa e i tordi volano in formazione con precisione geometrica, ma anche i frequent flyers non sono da meno quando tracciano le loro spiraleggianti scie fra i corridoi che collegano un imbarco all’altro, senza mai sbagliare, senza mai guardare, persi nei loro pensieri di riunioni d’affari e cene di lavoro.
Io, piuttosto, mi sono perso di nuovo, o meglio, ho perso quel volumetto da cui ero partito — metaforicamente, s’intende, perché è ancora qui, accanto a me, mentre scrivo. Ero stanco, dicevo, e così quella sera lo presi e lo poggiai su uno scaffale, assieme alla lunga lista di libri che ogni tanto compro e che non riesco mai a trovare il tempo di leggere. La mattina dopo, però, mi ritrovai a fare qualcosa di diverso: erano le sei meno un quarto, ovvero l’ora alla quale mi sveglio di solito quando devo andare a Fiumicino. Qualche volta le sei, persino le sei e un quarto se ho una riunione in tarda mattinata a Milano, ma non oltre, che più tardi parto e più traffico trovo, per cui mi conviene comunque partire presto. Mentre controllavo d’aver preso tutto, lo sguardo mi cadde su quel libricino nero, in cima alla pila di tomi ben più voluminosi. Fu un attimo prenderlo e metterlo nello zaino. Era leggero… perché no?
La mattina non carburo. E qui mi riconosco in un’altra caratteristica di Giulia, il Sindaco creato dalla penna di Patrizia:
«Il mio momento più ostico era la mattina. Che per me non aveva l’oro in bocca. Ma era pesante come il piombo. La mattina facevo fatica ad alzarmi perché soffrivo di pressione bassa, mentre della notte ero innamorata e la sfruttavo per intero. Di notte pensavo, studiavo, leggevo, inventavo cose e mi facevo venire idee. Le belle da coltivare e le brutte da scartare. E, quando il sonno finalmente catturava il mio corpo, era come se il mio animo continuasse a vegliare in attesa della luce.»
È curioso come ci si possa riconoscere in una sensazione, un vivere comune, di un’altra persona, magari una che non è neanche del tuo stesso sesso, che questa società vuole solo per quello diversa, incompatibile, aliena. Perché Giulia è Patrizia, o forse non lo è, forse è il suo opposto, ma noi negli opposti ci riconosciamo perché comunque ci rappresentano. Checché ne possano dire i critici, non si scrive per gli altri, o quantomeno, si scrive prima di tutto per se stessi. Poi i motivi possono essere i più vari, ma quando scrivi non pensi a chi legge, se sei un vero scrittore. Le parole che appaiono sulla carta o sullo schermo del computer sono fili della tua anima che si sciolgono per formare nuove realtà, comunque parte indissolubile del tuo esistere. Tracce, orme della mente e come tali, parti di te. Io credo che molto di Patrizia sia in Giulia, anche se, come ho già detto, non la conosco bene; perché in quella Giulia mi riconosco, seppure donna e seppure dell’esser donna faccia un punto di forza e un segnale di differenza. Donna è lei e donne sono i suoi collaboratori, tranne uno, un singolo uomo che ha la forza di convivere con le tigri nella gabbia e che rappresenta quel confronto, quell’essere diverso, che deve sempre esistere nella nostra vita.
Ma questa non è una recensione, non vuole esserlo. Non credo nelle recensioni e non credo nelle critiche letterarie, che vivono dell’arte come le muffe degli organismi ai quali si attaccano. Se lo scrittore è Dio, il critico è solo un’ombra che vive e teme la sua luce, e per esorcizzarla la disprezza o la loda, come più gli conviene, tanto sa di non poter mai rifulgere della propria. Ma io sono uno scrittore e quindi scrivo, scrivo le mie sensazioni e le mie emozioni e questo vuole essere solo questo, né più né meno: emozioni e sensazioni nate dalla lettura di quel volumetto di poco più di cento pagine.
La mattina non carburo, come dicevo, e in genere mi lascio andare in un limbo sito al confine fra la coscienza e il sogno, sufficiente a rispondere a domande esistenziali come «Desidera qualcosa da bere?» o «Biscotti o salatini?», in quel rito monotono che inizia con un decollo verso le nuvole e dalle nuvole riscende in una sequenza sempre uguale di atti e parole, ormai imparata a memoria come quando ero ragazzo la Messa. Forse sarà per questo che all’andata ho letto solo dieci capitoli, lasciando gli altri tredici per il ritorno. In genere ascolto i Muse o i Queen con il mio lettore MP3 o faccio qualche schema di quelli da 3 o 4 punti della Domenica Quiz. Una volta compravo la Settimana Enigmistica, ma da quando un’amica — quella sì che è tale, sebbene non la veda da anni — mi ha fatto conoscere quell’alternativa, non l’ho più lasciata. A me piacciono le sfide e se riesco in qualcosa ne rimango alla fine deluso.
Comunque, venerdì sera ho girato l’ultima pagina del romanzo di Patrizia che si vedevano già le luci della pista. L’ho letto tutto di un fiato, ma lentamente, senza fretta, assaporando le parole semplici, lo stile non elaborato e a volte persino troppo spezzettato ma carico d’anima, e di quore, sempre con la Q. Scrivere è un po’ come spogliarsi e stendere i propri panni alla luce del sole, dove tutti li possano vedere, e allo sferzare della pioggia e del vento, che non ha pietà né rimorso. La camicia, i pantaloni o la gonna, la biancheria intima… non è il tuo corpo ad essere esposto, ma la tua anima, ciò che davvero ti appartiene, e sai già che ci sarà chi ti farà a pezzi, ti criticherà, o chi ti loderà nella speranza di conoscerti e di poter dire che ti conosce, ma non ti interessa. È un atto catartico, un esorcismo, un momento di liberazione che ti rende simile a Dio, senza tuttavia elevarti al Cielo ma piuttosto sciogliendoti nel presente. Un sogno ad occhi aperti, un fluire di energie che ti lasciano svuotato ma più leggero, come una doccia dopo un’ora di allenamento, un bagno nell’acqua fredda del mare dopo una lunga corsa sotto il sole. Questo è scrivere e solo chi lo ha fatto sa cos’è. Il resto, la fama o l’anonimato, la gloria o il disonore, le lodi o le pesanti critiche, sono un di più.
Non si diventa famosi perché si è bravi e probabilmente né Patrizia né io diventeremo mai scrittori famosi. Oggi la fama è il risultato di una macchina mediatica e commerciale che con la bravura ha ben poco a che vedere. Neppure essere pubblicati conta ma solo essere distribuiti, e bene, e quel che è più, vendere. E non si vende per come si scrive esattamente come questo blog non è famoso come quello di Beppe Grillo perché ciò che vi è scritto è di peggiore qualità, ma solo per il fatto di essere riusciti a entrare in meccanismi e logiche che con lo scrivere non hanno nulla a che vedere, e a cui si approda al fine o per fortuna o per denaro, o più spesso, oggi, per il semplice prostituirsi a un sistema.
Ma questo con Giulia non c’entra. Lei al contrario al sistema non si prostituisce mai, ma lo combatte e lo vive, e vince ma anche perde, perché la realtà è che qualunque cosa tu faccia e per quanto buone siano le tue intenzioni, ti lasci dietro sempre qualche goccia di sangue. E se la favola di Patrizia finisce bene, perché di una favola si tratta, nella quale si leggono sogni e speranze che le cronache nazionali smentiscono purtroppo sempre più ogni giorno che passa, anche lì qualche goccia di sangue rimane sulla carta, come quelle di Gabriela… ma non voglio dire di più, che non sta a me svelarvi la trama.
Non è tuttavia per la storia che questo libro va letto, perché non c’è in essa nulla di più che uno spaccato di vita di una piccola cittadina «che vive tra i piedi di una collina e un lembo di mare», ma per il quore, quel cuore che dovrebbe d’essere sempre d’esempio a uomini e donne di questa penisola maltrattata e senza più anima. Leggerlo non vi cambierà la vita e forse non vi darà nulla che in fondo non sappiate già, ma vi farà capire una cosa importante: se siete fra coloro che ancora vivono con il cuore, non siete soli. Ce ne sono molti come noi, seppure sparsi come briciole sulle onde del mare, alla balia dei gabbiani e delle correnti. Siamo tanti, e seppure non siamo quelli che fanno più rumore, siamo quelli che appunto fanno. Il resto sono solo urla nel vento.
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