Vite spezzate


Quando parliamo di guerra siamo abituati a pensare subito in termini di “buoni” e “cattivi”, soprattutto se la guerra in questione è il secondo conflitto mondiale, che ha visto l’Asse e gli Alleati impegnati nella più sanguinosa guerra della storia dell’umanità. Ma una guerra è anche un evento complesso, dove le storie dei singoli si intrecciano con altre migliaia di vite e dove le scelte individuali sono spesso il risultato di pressioni e situazioni al di fuori del controllo di un singolo essere umano. Così i ruoli si intersecano e il carnefice si trasforma in vittima, la vittima in carnefice e le categorie, le classificazioni, i raggruppamenti, perdono di significato. Complessivamente un giudizio può ancora essere espresso, ma quando si scende a livello del singolo individuo, quella sottile linea rossa tra giusto e sbagliato, tra buono e cattivo, si fa più flebile, fino a sparire del tutto, lasciando solo un grande senso di amarezza e di tristezza per tante vite sprecate e tante sofferenze che forse ci si sarebbe potuti risparmiare.

Ieri sera mia madre mi ha raccontato una storia. Il periodo è verso la fine della Seconda Guerra Mondiale in Europa, durante la ritirata dei tedeschi dall’Italia. A quell’epoca lei abitava nelle Marche. Un giorno arrivò nel paese dove lei abitava una lunga fila di soldati nazisti stremati. La maggior parte di loro erano ragazzini fra i sedici e i diciotto anni; qua e là c’erano anche alcuni reduci della Prima Guerra Mondiale, vecchi che a malapena riuscivano a imbracciare un fucile. Non arrivarono per occupare il paese o vessare la popolazione, non fecero nulla se non fermarsi per qualche ora all’ombra delle querce che crescevano vicino alla piazza del paese in attesa di riprendere la lunga marcia verso nord. Nel villaggio c’erano quasi esclusivamente donne, vecchi e bambini. Gli uomini in parte erano nell’esercito fascista, in parte fra i partigiani, in parte… beh, nessuno sapeva dove fossero o se fossero ancora vivi. Nonostante questo quelle famiglie vivevano unite, o forse dovrei dire, sopravvivevano aiutandosi le une le altre.

Quando i soldati arrivarono al villaggio molte donne portarono loro da mangiare e da bere. Poca cosa, perché la guerra aveva tolto loro praticamente tutto, ma nelle campagne si stava meglio che in città perché c’erano i pozzi per l’acqua, gli orti per coltivare verdure e qualche animale per il latte, con il quale si faceva il formaggio. Oggi a noi potrà sembrare strano, ma che il figlio o il marito fosse partigiano o fascista non fece la differenza: l’intero paese diede un minimo di ristoro a quei ragazzi dallo sguardo perso nel vuoto, disincantato, senza più un riferimento, senza più qualcosa in cui credere. Ringraziarono, la testa bassa, quasi vergognosi di prendere quel cibo da chi una volta l’avrebbero preteso, poi ripartirono.

Si erano messi in marcia da poco sulla strada sterrata che dal villaggio portava verso settentrione, quando un gruppo di caccia americani li avvistò. I nazisti se ne accorsero, ma erano completamente allo scoperto e forse non avevano neppure più voglia di combattere perché continuarono comunque a camminare, trascinando i piedi senza quasi neppure alzare la testa verso il cielo. I caccia fecero un paio di giri, poi scesero e cominciarono a mitragliare la colonna. A questo punto i nazisti cercarono di scappare, ma era troppo tardi. Vennero letteralmente fatti a pezzi. Furono sganciate anche alcune bombe. Il tutto durò pochi minuti, dopodiché tornò il silenzio. I caccia fecero ancora un paio di giri per verificare che non ci fossero superstiti, quindi se ne andarono.

Fu a quel punto che mia madre, che all’epoca aveva solo 14 anni, assieme a tutte le altre donne del villaggio, scese giù sulla strada per raccogliere quei poveri resti. Li raccolsero con i grembiuli e le lenzuola, perché pochi erano rimasti interi. Braccia, gambe, pezzi di visceri… raccolsero ogni più piccolo pezzo, mentre i vecchi e i ragazzi scavavano una grande fossa, e li seppellirono vicino al piccolo cimitero del villaggio. Poi tornarono al villaggio a lavare i panni da tutto quel sangue.

Non fu solo un atto di pietà. Molte donne avevano visto in quei ragazzi i figli che non avevano più, molti uccisi in guerra dagli Alleati, altri ammazzati da quegli stessi nazisti che ora stavano lasciando il paese. Eppure non ebbero alcun dubbio: lo fecero e basta, così, senza farsi domande, senza darsi risposte. Fu un puro e semplice atto di pietà per dei ragazzi strappati ad altre famiglie, che parlavano una lingua diversa ma che avevano avuto gli stessi sogni, spezzati da una macchina della propaganda che li aveva trasformati in carne da macello che nulla doveva chiedersi ma solo obbedire. Vite spezzati, come le loro speranze, vite che la storia ricorda aver combattuto dalla parte sbagliata ma che un piccolo paese della campagna italiana aveva raccolto per dare loro un fazzoletto di terra quale ultima dimora in terra straniera e ricordare a tutti noi che è facile giudicare, molto facile, soprattutto per chi la guerra non l’ha vissuta in prima persona. Avere pietà, quello è difficile.


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