Democrazia e Autocrazia: una sfida ad armi impari


Pratico arti marziali da tutta la vita. Intese nel loro significato originario, sono sistemi tradizionali di tecniche di combattimento nati non solo per la difesa personale, ma anche per la guerra. Uniscono disciplina fisica, mentale e spirituale, e sono orientate allo sviluppo personale, al confronto fisico e alla ricerca di equilibrio interiore, guidate spesso da principi etici e filosofici.

Le arti marziali hanno avuto origine, fin dall’antichità, in diverse parti del mondo. Le più conosciute sono quelle orientali, in particolare quelle nate nel subcontinente indiano, come il Kalaripayattu, che ha influenzato l’evoluzione delle arti cinesi – come il Kung Fu – e da lì si sono poi diffuse in altre aree dell’Asia orientale: il Karate, il Judo, l’Aikido e il Kendo in Giappone; il Taekwondo e l’Hapkido in Corea; il Muay Thai in Thailandia; l’Eskrima, l’Arnis e il Kali nelle Filippine. Altre discipline, invece, hanno probabilmente avuto origini locali, come il Bökh in Mongolia o il Pahlevani in Iran.

Ogni continente, tuttavia, ha sviluppato le proprie arti marziali. In Europa troviamo quelle che oggi vengono classificate come Arti Marziali Storiche Europee (HEMA), come ad esempio la Scherma Storica italiana. Studiando gli antichi trattati, si scopre che non vi si trovano solo le tecniche di spada a noi familiari, anche grazie a numerosi film d’avventura, ma anche leve articolari, strangolamenti e l’uso di un ampio ventaglio di armi: bastoni, coltelli, cappe, fino al curioso duello con spada e lanterna. Molte di queste tecniche ricordano quelle delle arti orientali; d’altronde, l’anatomia umana è la stessa ovunque nel mondo. Esistono poi arti basate su calci e pugni, come il Savate francese e il Pankration greco. Ci sono inoltre discipline come la Scherma di Bastone italiana e il Bartitsu britannico.

Nelle Americhe, l’arte marziale più nota è la Capoeira brasiliana, ma sappiamo che esistevano forme rituali di combattimento anche presso i guerrieri Maya, Aztechi e Inca. Questo suggerisce che anche quelle civiltà possedessero tradizioni marziali proprie, purtroppo oggi dimenticate.

Oggi, se escludiamo l’addestramento militare e l’ambito della difesa personale – come nel caso del Krav Maga – molte di queste arti hanno dato origine a una vasta gamma di discipline sportive, molte delle quali prevedono tornei, campionati e sono persino presenti alle Olimpiadi. In cosa si differenziano dalle arti marziali vere e proprie? Nelle regole. Quando si combatte in un contesto sportivo, la prima preoccupazione è la salvaguardia dei due combattenti, cioè fare in modo che non vengano utilizzati colpi o tecniche potenzialmente letali o gravemente invalidanti. Certo, ci si può comunque fare male, anche con le protezioni, ma esiste un insieme preciso di colpi che sono considerati “proibiti”.

Ebbene, immaginate ora un combattimento sportivo di karate, ad esempio, in cui non ci sia un arbitro, e uno dei due combattenti non rispetti alcuna regola, mentre l’altro sì. Uno cerca di fare male, l’altro di guadagnare un punto. Supponiamo che abbiano entrambi lo stesso addestramento, le stesse capacità e la stessa struttura fisica.

Secondo voi, chi vince?

Credo siate d’accordo con me: non ci sarebbe partita. Chi fosse costretto a combattere rispettando le regole, facendo attenzione a non nuocere seriamente all’avversario, non avrebbe scampo contro qualcuno che invece le infrange deliberatamente, mirando a infliggere il massimo danno possibile. E non è solo una questione di confronto diretto. Se un marzialista non è abituato a combattere al di fuori delle regole, non avrà sviluppato certi automatismi difensivi o tecniche specifiche, semplicemente perché non ne ha mai avuto bisogno. Le regole, infatti, modellano il modo di combattere e influenzano l’intera strategia: si costruisce un piano sulla base di ipotesi condivise. Ma se queste ipotesi vengono violate, tutto crolla, perché non si è preparati a gestirlo.

Certo, se oltre ai tornei un marzialista ha avuto esperienza in contesti meno regolamentati – come un “fight club”, o il cosiddetto “street combat” – allora la questione cambia. Saprà come comportarsi quando l’arbitro non c’è, e a un certo punto reagirà al suo avversario in modo da neutralizzarlo. Ma se si dovesse comunque attenere completamente alle regole stabilite, ripeto, non avrebbe scampo.

È ciò che è accaduto in Russia, che sta avvenendo in Ungheria e negli Stati Uniti, e che comincia a manifestarsi anche in Italia. I due contendenti in campo sono, da una parte, coloro che mirano a trasformare le nostre democrazie in autarchie, oligarchie o altre forme di governo autoritario; dall’altra, chi si impegna a difenderle. Ma questi ultimi partono svantaggiati, perché rispettano le regole.

Ed è proprio questo il nodo: infrangere le regole permetterebbe di combattere ad armi pari con chi tenta di sovvertire la democrazia, ma significherebbe, in un certo senso, correre il rischio di diventare ciò che si combatte. Lo abbiamo visto con la Rivoluzione Francese: basta poco perché i “liberatori” si trasformino nei nuovi “oppressori”.

Inoltre, bisogna considerare una questione fondamentale: questi cambiamenti non avvengono attraverso un colpo di Stato improvviso, come nei casi di golpe militari in alcuni Paesi sudamericani. Avvengono invece per gradi, attraverso una lenta erosione dei diritti civili e una progressiva concentrazione del potere nelle mani di pochi. Il confine tra democrazia e autocrazia – o persino dittatura – diventa così sottile da risultare sfocato.

Si prenda ad esempio il cosiddetto “decreto sicurezza” in Italia. È estremamente preoccupante, e non lo affermo solo io, ma anche il Presidente della Repubblica — che in materia legislativa ha una certa competenza — e persino le Nazioni Unite. Che l’ONU intervenga commentando un decreto di un Paese occidentale è fatto raro, e questo rende la preoccupazione più che giustificata. Il problema, però, è che fintanto che il decreto non sarà ritirato, modificato o annullato, resta valido. Pur non essendo ancora legge, va rispettato come se lo fosse, almeno fino alla sua eventuale conversione. Rifiutarlo o non riconoscerlo come valido equivale, di fatto, a commettere un reato.

Ma allora, le “Leggi per la difesa della razza”, emanate tra settembre e novembre del 1938? Erano leggi, giusto? E in quanto tali dovevano essere rispettate, almeno da chi si considerava un cittadino rispettoso della legge. Chi non lo faceva, tecnicamente, commetteva un reato. Eppure, ci sono stati uomini e donne che le hanno violate per salvare vite umane, nascondendo e proteggendo italiani di origine ebraica. Oggi, li riconosciamo come eroi.

Ma oggi, chi si opponesse apertamente al cosiddetto “decreto sicurezza”, verrebbe considerato allo stesso modo? Probabilmente no. Anche tra coloro che ancora credono nei valori della democrazia, in molti risponderebbero così.

Ed è qui che torniamo al problema di fondo: combattere chi vuole distruggere la democrazia usando gli strumenti e le regole offerte dalla stessa democrazia è, spesso, una battaglia persa in partenza. Possiamo trovarlo ingiusto, scomodo, perfino inaccettabile. Ma è così. Il vero punto è che non esiste un criterio oggettivo, universale e condiviso per stabilire quando sia necessario cambiare passo — quando, cioè, violare le regole significhi smettere di essere criminali e cominciare a essere eroi.

Torniamo un attimo alle arti marziali. Un principio fondamentale nel combattimento è quello di non far chiudere una leva. Se vuoi contrastarla, devi agire prima che venga portata a termine. Una volta chiusa, uscirne è estremamente difficile, se non impossibile.

Lo stesso vale per le dittature: se aspetti che si siano consolidate, uscirne sarà un bagno di sangue. Lo sanno bene quelli che hanno combattuto come partigiani contro fascisti e nazisti, in Italia e in Francia.

La domanda che dobbiamo porci è: abbiamo già oltrepassato quella barriera invisibile che separa la democrazia dalla dittatura? Non ho una risposta certa. Posso solo esprimere un’opinione: in Russia e Bielorussia quella soglia è stata superata da tempo; in Ungheria e Turchia ci siamo molto vicini; forse anche negli Stati Uniti. In Italia, forse, c’è ancora un po’ di margine, ma si restringe ogni giorno di più.

Resistiamo ancora solo grazie a una netta separazione dei poteri e a una Costituzione solida, nata dalla tragica esperienza del fascismo. Ma gli attacchi alle nostre libertà e ai valori democratici si fanno sempre più frequenti. E la soglia, quella soglia, è lì davanti a noi. Ogni giorno un po’ più vicina.


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