Uno dei punti deboli del sistema produttivo italiano è la capacità di innovazione. Nel mondo dell’industria, innovare vuol dire realizzare qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che non è mai stato fatto prima o che è stato fatto in un modo differente, in modo da ottenere un risultato migliore con uno sforzo o un impegno economico minore. L’innovazione, nell’impresa, non è quindi fine a se stessa, come nella ricerca, ma è intesa a raggiungere un risultato misurabile che in qualche modo aumenti la competitività dell’impresa stessa. Questo risultato può realizzarsi sotto forma di riduzione dei costi, aumento della qualità, miglioramento dei processi, capacità di portare sul mercato nuovi prodotti o di rendere più appetibili quelli che già si offrono.
In questo campo l’impresa italiana è assolutamente deficitaria. Se poi consideriamo che i problemi maggiori li hanno le piccole e medie imprese (PMI) e che queste rappresentano gran parte del sistema produttivo italiano, non c’è da stupirsi che il nostro Paese si trovi in difficoltà di fronte alla concorrenza non solo degli Stati Uniti e del Giappone, ma anche di molti altri Paesi europei. E la situazione non potrà che peggiorare, se non si prenderanno misure adeguate. Ad esempio, oggi la cosiddetta «minaccia cinese» si basa quasi esclusivamente sui costi di produzione bassissimi grazie al basso costo della manodopera in quel Paese e al mancato rispetto di quelle normative che nei Paesi occidentali sono obbligatorie ai fini di salvaguardare sia i lavoratori che i consumatori. Tuttavia la Cina sta seguendo le orme di Giappone e Corea del Sud nel campo delle tecnologie avanzate, per cui domani potremmo doverci confrontare con un Paese con le capacità di innovazione del Giappone ma la capacità di produzione di un Paese di oltre un miliardo e mezzo di abitanti.
Il problema principale è che da noi innovazione è spesso considerato sinonimo di utilizzo di tecnologie avanzate. Questo è un gravissimo errore. L’innovazione non sta nella tecnologia, ma nei processi. Ovviamente la possibilità di creare processi innovativi viene spesso alimentata dalla disponibilità di nuove tecnologie, ma quest’ultima da sola non è sufficiente a fare innovazione se mancano le idee giuste, e queste non possono essere solo il risultato di un momento di ispirazione del genio di turno in un sistema produttivo industriale, ma devono essere generate con una certa continuità da investimenti oculati nella Ricerca & Sviluppo (R&S) da parte delle singole imprese. Questo, ovviamente, può rappresentare un problema per le PMI che non hanno né i mezzi né la forza di investire in progetti a medio e lungo termine e comunque in progetti di ricerca. La soluzione si chiama aggregazione. Attraverso l’aggregazione le PMI possono sviluppare delle capacità che al momento sono a disposizione solo della Grande Impresa (GI). Perché ci sia vera aggregazione, tuttavia, è necessario iniziare a scorporare e mettere in comune i processi non strategici, come la logistica, ad esempio, oltre che a costruire tutta una serie di processi interaziendali che permettano lo scambio rapido ed efficiente di dati e informazioni fra le varie imprese realizzando quello che viene chiamato un sistema collaborativo-competitivo, ovvero un sistema nel quale le stesse aziende competono in certi ambiti e collaborano in altri.
Tornando all’innovazione, facciamo un esempio di come le nostre imprese, pur avendo la tecnologia necessaria, dimostrino di non saperla sfruttare a loro vantaggio. Stiamo parlando dei telefoni cellulari. Oggi la maggior parte delle imprese usa il cellulare unicamente per permettere alla propria forza lavoro sul campo di comunicare. Tuttavia un cellulare di nuova generazione può far ben più che comunicare. Lasciamo da parte per un momento le aziende e pensiamo al mercato consumatori. Se diamo un’occhiata alla pubblicità delle aziende che producono telefonini e alle campagne promozionali delle varie aziende di telecomunicazioni, ci rendiamo immediatamente conto di come la funzione principale di un telefonino sia ormai del tutto ignorata. Oggi i cellulari servono a giocare, ad ascoltare la musica, a fare e trasmettere immagini e filmati. Non si parla di qualità del segnale, copertura del territorio, ergonomia dello strumento, e non perché tutti questi problemi siano stati risolti, ma perché si sta trasformando il cellulare in una sorta di strumento multimediale a tutto campo, un po’ come è stato il PC negli anni Novanta. Con la differenza che il cellulare ha in Italia e nel mondo una diffusione che il PC non ha mai avuto e forse non avrà mai. Con l’integrazione fra cellulari e palmari, ovvero i cosiddetti smartphone, e la disponibilità di canali a banda larga per la comunicazione, il cellulare sta inoltre diventando un punto di contatto permanente fra una persona e la rete globale. Eppure nelle nostre aziende il cellulare, se e quando è fornito agli impiegati, è ancora solo uno strumento di comunicazione, del tutto scollegato dai processi informatici aziendali e dai flussi di dati sui quali si basano oramai tutte le aziende moderne.
Per quanto riguarda il rapporto fra tecnologia e innovazione ci sono altri due punti da sottolineare. Il primo è che esistono due tipi di tecnologie: quelle nuove e quelle innovative. Facciamo un esempio: se venisse sviluppata una televisione tridimensionale ci troveremmo di fronte a una tecnologia nuova, ma per quanto straordinaria non sarebbe realmente innovativa. Non è infatti difficile estrapolare dalla tecnologia attuale l’idea di una televisione 3D. Gli scrittori di fantascienza hanno immaginato questo genere di strumenti fin dai primi anni Cinquanta. Certo, immaginare è una cosa e realizzare è un’altra, ma il punto è che l’innovazione è nelle idee, non nella realizzazione. Da questo punto di vista è molto più innovativo il telecomando del vostro televisore, tant’è che gli stessi scrittori di fantascienza non avevano minimamente pensato ad uno strumento del genere nei loro libri. In effetti pensare di comandare uno strumento a distanza tramite un segnale elettromagnetico direzionale da una scatoletta piena di pulsantini è un’idea assolutamente innovativa, tanto da avere avuto un effetto a livello sociale, ovvero di comportamento nell’interazione fra essere umano e macchina. Mi riferisco al cosiddetto zapping. Così un oggetto tecnologicamente più semplice di un’ipotetica e non ancora realizzata TV 3D si dimostra essere ben più innovativa di quest’ultima.
Il secondo punto da sottolineare è il rischio. Non ci può essere innovazione se non c’è un certo rischio. Calcolabile, ovviamente; gestibile, necessariamente; comunque aleatorio. Purtroppo l’attitudine al rischio è un altro di quegli elementi che manca quasi del tutto nel panorama dell’impresa italiana, non solo nelle PMI ma anche nelle GI. Non solo manca, ma quando si presenta l’occasione, ovvero viene sviluppata un’idea innovativa, la tendenza è quella di minimizzarla e comunque di non darle alcuna possibilità di realizzazione. In Italia, ad esempio, mancano completamente quelle banche d’affari che in Paesi come gli Stati Uniti danno la possibilità anche a uno studente senza un quattrino di trovare dei finaziatori se ha fra le mani un’idea innovativa valida e realizzabile. L’attitudine al rischio è quindi una qualità necessaria, anche se non sufficiente, per avere vera innovazione, e senza innovazione il nostro Paese non ha grandi possibilità di tornare ad essere competitivo. Certo non possiamo basare la nostra competitività sui prezzi, dato l’elevato costo del lavoro in Italia, e neanche più sulla sola qualità, perché altri Paesi stanno imparando a fare prodotti di qualità. Pensare che altri non possano competere con noi sul quell’elemento che ha caratterizzato finora il «Made in Italy», ovvero il design, è pura e semplice arroganza, e l’arroganza si finisce sempre per pagare, sul lungo termine.
C’è infine un’ultima considerazione da fare e riguarda il ruolo della ricerca accademica. I Paesi più innovativi sono quelli che spendono di più in ricerca, ovvero quelli che dedicano alla ricerca almeno un 3% del PIL. E non sto parlando solo della ricerca applicata, ma anche e soprattutto di quella pura. Chi pensa che quest’ultima, non essendo direttamente legata a progetti di innovazione tecnologica in ambito produttivo, sia più che altro un lusso per un Paese industrializzato, commette un altro gravissimo errore. D’altra parte gli USA, uno dei Paesi nei quali più che in ogni altro è il profitto a governare scelte politiche e industriali, è anche uno di quelli che spende di più nella ricerca pura. Questo dovrebbe dire qualcosa ai nostri politici e ai nostri imprenditori. In Europa un caso eclatante di rinnovamento del sistema produttivo basato su investimenti consistenti nel campo della ricerca è la Finlandia. Se la Finlandia è oggi la patria dei telefoni cellulari e di molte tecnologie di comunicazione è grazie a scelte strategiche coraggiose da parte di quel governo e delle forze sociali e imprenditoriali di quel Paese.
Purtroppo nel nostro Paese non esiste una storia consolidata di cooperazione fra impresa e università, o meglio, esiste per alcune Università specifiche, ma sempre all’interno di un sistema che vede con timore un legame più stretto fra il mondo dell’imprenditoria privata e la ricerca pubblica. Le motivazioni sono complesse, ma alla base c’è comunque un conflitto fra poteri. Attualmente, infatti, l’università è riserva di caccia della politica e delle forze sociali, storicamente contrapposte ai gruppi industriali e all’imprenditoria. Le prime hanno il timore di perdere influenza sul mondo accademico a vantaggio dei secondi. Così la nostra università, sebbene ricca di cervelli, finisce per alimentare la ricerca straniera a causa del problema ben conosciuto della fuga di cervelli, della quale abbiamo già parlato in un altro articolo.
Per concludere, le possibilità per il Sistema Italia di tornare a guadagnare un certo livello di competitività rispetto agli altri Paesi industrializzati e soprattutto ai Paesi emergenti si basa su alcune scelte che se non saranno fatte affonderanno definitivamente il nostro sistema imprenditoriale:
- aumentare la percentuale di PIL dedicato alla ricerca pura;
- investire di più all’interno delle aziende nella Ricerca & Sviluppo;
- integrare maggiormente il mondo accademico con l’imprenditoria;
- aggregare le imprese in sistemi produttivi territoriali e non;
- dare maggiore disponibilità di credito e finanziamenti per le idee innovative dentro e fuori le imprese;
- focalizzarsi sull’innovazione dei processi piuttosto che sull’introduzione fine a se stessa di tecnologie;
- puntare all’innovazione vera e propria e non semplicemente alla novità e all’evoluzione delle tecnologie già esistenti;
- facilitare lo sviluppo di una cultura più favorevole al progresso tecnologico e con minori idiosincrasie nei confronti dell’innovazione e della Scienza in generale.
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