«Mamma li Turchi!» Così si gridava una volta quando dalle torri di avvistamento erette sulle coste della nostra penisola si vedevano in lontananza le temute vele. Oggi i turchi non fanno più paura a nessuno. Al loro posto è arrivato un altro popolo che ha creato lo scompiglio nella già debole economia del nostro Paese: i Cinesi. Le loro armi non sono scimitarre, mazze e cangiari, ma magliette, pantaloni e biancheria intima.
E così c’è chi grida all’invasione, chi invoca misure protezionistiche e dazi, chi accusa la Cina di concorrenza sleale. D’altra parte sono ormai diversi mesi che si è aperta la caccia alle streghe, ovvero a chi o cosa sia responsabile dell’attuale crisi economica. Attualmente si stanno contendendo il primato l’euro e i cinesi, il primo messo sotto accusa dalla Lega e dai commercianti, i secondi dalla Confindustria e dagli imprenditori, soprattutto quelli piccoli e medi.
Cercare all’esterno le cause dei propri problemi è sempre conveniente, soprattutto se si sa benissimo di non essere in grado di risolverli, ancor più se si sa che la vera causa siamo proprio noi. Dell’euro non parlerò. La questione di ritornare alla lira o peggio ancora, come ho sentito oggi pomeriggio, inventarsi una nuova moneta da affiancare all’euro è così ridicola che non merita commento. Sul discorso dei cinesi, tuttavia, desidero spendere due parole.
Innanzi tutto parliamo di prodotti. Se avete avuto modo di metter le mani sui prodotti tessili cinesi credo vi siate resi conto che non sono affatto di pessima qualità, anzi, alcuni sono decisamente ottimi. Sul prezzo inutile commentare. Si tratta di prodotti a prezzi stracciati, per cui alla fine il rapporto qualità prezzo è indubbiamente vantaggioso. Ma… in effetti c’è un «ma». Lo sappiamo tutti: i prodotti cinesi costano poco perché poco costa la manodopera cinese, e questa costa poco perché ad essa non sono riconosciuti tutti quei diritti che sono invece riconosciuti ai lavoratori dei Paesi europei, perché nelle fabbriche si lavora sedici ore al giorno, non ci sono procedure di sicurezza, non ci sono quei controlli di qualità e di rispetto per l’ambiente che ci sono, almeno formalmente, da noi.
Tutto ciò è vero, ma c’è un altro «ma» da considerare, anzi due! Il primo riguarda le nostre accuse al sistema produttivo cinese. Sono vere, ma si sia onesti: finché i prodotti cinesi non hanno invaso l’Europa e soprattutto l’Italia, non mi sembra di aver visto la gente protestare e scendere in piazza, i politici gridare allo scandalo, i sindacalisti mostrare la propria solidarietà ai milioni di cinesi che lavorano come schiavi per produrre prodotti di buona qualità a basso prezzo. Che i prezzi di tali prodotti siano bassi per questi e anche altri motivi è un fatto, ma evitiamo almeno di fare i moralisti, soprattutto in un periodo storico in cui le grandi aziende licenziano e spostano le proprie attività produttive in Romania e in India e i centri di supporto a Praga o Budapest.
Secondo «ma», molto più importante del primo: i cinesi sono un miliardo e mezzo, quelli in Cina. A questi vanno aggiunte diverse centinaia di milioni di cinesi emigrati in tutto il mondo, stretti a formare in ogni città le loro Chinatown e legati a doppio filo alla terra d’origine. Quando un Paese che ha diverse migliaia di anni di storia, che ha prodotto opere d’arte e letterarie di grande valore, può contare su miliardi di persone, è solo una questione statistica la disponibilità di decine, persino centinaia di migliaia di imprenditori in gamba, di ricercatori geniali, di designer di qualità, di ingegneri, scienziati, inventori e quant’altro possa fare di un sistema economico un’economia di successo.
La conseguenza è ovvia a chiunque abbia il coraggio di confrontarsi con la realtà: è solo una questione di tempo. Presto la Cina inonderà i mercati mondiali di prodotti di qualità, prodotti innovativi, a basso prezzo, assolutamente concorrenziali. Lo farà rispettando le regole occidentali, lo farà come noi e meglio di noi. I cambiamenti in Cina avvengono molto lentamente, ma avvengono. È un Paese che sfugge a tutti i tentativi di classificazione: è una dittatura comunista capace di creare al proprio interno oasi di imprenditoria capitalistica, è un Paese in cui la religione è strettamente controllata dallo Stato ma che possiede un’anima spirituale antichissima, dove le tecnologie più avanzate, capaci di proiettare il Paese verso la conquista dello spazio, si sovrappongono a una medicina tradizionale che fa di tecniche millenarie il proprio punto di forza. È un Paese dalle mille contraddizioni, che si può amare, odiare, lodare o criticare, ma sicuramente non ignorare.
E sarà sempre più difficile ignorarlo in futuro, specialmente da parte dei nostri imprenditori: quelli grandi, che hanno campato per troppo tempo sugli aiuti dello Stato, o forse sarebbe meglio dire di quei partiti che in cambio ne ricevevano un vantaggio sia in termini economici che elettorali; quelli medi e piccoli, che sono andati avanti per anni vivendo su poche commesse, senza costruire un sistema manageriale serio, vivendo alla giornata, incapaci di qualsiasi iniziativa di vera aggregazione. Gli uni e gli altri perfettamente integrati in una cultura di analfabetismo scientifico, dove a uno Stato che investe meno dell’1,5% del PIL nella ricerca si aggiunge l’incapacità dei nostri imprenditori di fare seriamente ricerca e sviluppo. E non perché i soldi manchino, anzi, anche troppi sono stati i finanziamenti europei e italiani in tal senso, spesso sprecati in progetti di nessun respiro, manchevoli di una vera visione a lungo termine.
E così oggi si grida «Mamma i Cinesi!». Ma perché stupirsi? In un Paese di mammoni che altro ci si può aspettare dai nostri imprenditori se non andare a piangere dalla mamma? Ma questa volta la loro mamma, ovvero lo Stato, ben poco potrà fare, occupato a gestire i propri di problemi economici. E se anche i tanti desiati dazi dovessero arrivare, quanto pensate che durerà la tregua? Uno, due, cinque anni? E voi pensate veramente che una classe imprenditoriale che ha vissuto finora di clientelismo, approfittando in molti settori anche della sostanziale assenza di una seria concorrenza da parte delle aziende straniere, possa nel giro di pochi anni acquisire quella capacità di competere e di rinnovarsi che non è riuscita a crearsi nell’ultimo decennio.
Beh, io no.
L campagna anti cinese che il nostro paese sta promuovendo è una delle cose più disgustose dopo l’embargo su Cuba e i lager Nazisti…
EdO
Ovviamente, edO, questa è una tua personalissima opinione, ma mi sembra un po’ azzardato accostare fatti storici così diversi fra loro!
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Penso invece che sia corretto, come dice Dario, osservare che per i nostri politici è più semplice, quando le cose vanno male, cercare responsabilità esterne al loro operato piuttosto che interrogarsi seriamente sulle responsabilità proprie.
In un altro mio post ho parlato dell’impersonalità dei discorsi dei politici: “si dovrebbe”, “bisognerebbe”, “è necessario che”.
Mai nessuno di loro che dice “io mi impegno a fare questo e quello entro tale data e con tali mezzi, e mi assumo la responsabilità di ciò che succederà”.
Troppo rischioso…
Meglio cercare le colpe nell’euro, nel terrorismo (torri gemelle), nei cinesi.
Ma questi “fatti” esterni riguardano anche gli altri paesi industrializzati del mondo… perché solo NOI sembriamo patire di più?
Forse negli altri paesi i politici (TUTTI, indipendentemente dalle posizioni) si lamentano di meno e lavorano di più… forse.
C’è una delle leggi di Murphy che dice (più o meno): “Quando le cose vanno male e c’è qualcuno che sorride allora vuol dire che ha già pensato a qualcun altro a cui dare la colpa”.
Zingaro