Montreal, venerdì 29 luglio 2005
Storica l’impresa di Filippo Magnini, che a sorpresa vince la medaglia d’oro nella gara più importante dei Mondiali, i 100 stile libero maschili. Magnini ha superato con il tempo di 48"12 i due sudafricani Roland Schoeman e Ryk Neetlyng, con i tempi rispettivamente di 48"28 e 48"34. Solo settimo Michael Phelps con il tempo di 48"99.
No, non sono impazzito. Lo so che questa notizia è di oltre un mese fa. D’altra parte, per le considerazioni che intendo fare, va più che bene.
Non è la prima volta che un italiano vince un’importante gara in una competizione a livello mondiale, ovviamente. Nelle Olimpiadi e nei vari Mondiali di nuoto, atletica, sci e via dicend, l’Italia ha sempre portato sul podio atleti di entrambi i sessi, anche se con una certa discontinuità. Semmai è proprio su questa che vorrei puntare l’attenzione. Premetto che sto parlando prevalentemente di singoli risultati, ovvero non mi riferisco alle vittorie riportate negli sport di squadra come la pallavolo o la pallanuoto dove l’Italia è tradizionalmente ai massimi livelli, salvo periodi più o meno neri. Concentriamoci sull’impresa del singolo o al massimo di una coppia, com’è nel caso del canottaggio.
Vi ricordate di Mennea nei 200 metri con il suo straordinario 19"72? La Simeoni nell’alto? E Cova nei 3.000 metri, Damilano nella 3 chilometri di marcia, Bordin nella maratona olimpica del 1988, la Pezzo nella Mountain Bike, gli Abbagnale nel canottaggio, e tanti altri in tutte le discipline possibili, dall’atletica alle due ruote, dal nuoto alla vela, dalle arti marziali alla scherma? Tutte queste vittorie sono state caratterizzate da alcuni fattori comuni.
Innanzi tutto, la sorpresa, proprio come riportato nella notizia a inizio articolo. Ogni volta, almeno alla prima vittoria, i favoriti erano altri. Spesso, quando il favorito è proprio un italiano, ci aspetta una delusione. Quando tuttavia nessuno darebbe un euro per una vittoria italiana, ecco che spunta il campione di turno. Il che dovrebbe dar da pensare, visto che campioni non lo si diventa per grazia ricevuta, ma sono necessari non solo anni di allenamenti, ma anche la partecipazione a molte gare, in modo da farsi le ossa anche sul piano psicologico oltre che su quello fisico. E allora perché i vari cronisti sportivi parlano sempre di sorprendente o di inattesa vittoria? Lascio per il momento la domanda in sospeso.
Secondo punto: in seguito alla prima vittoria l’Italia scopre questo o quello sport, i dirigenti del CONI fanno grandi sorrisi e affermano che in fondo è tutto merito loro, ragazzi e ragazze di ogni età si iscrivono ai corsi per emulare i loro campioni. L’Italia è un Paese circondato per tre quarti dal mare, ma ci sono volute le imprese di Azzurra per far conoscere a molti italiani la vela. Lo stesso dicasi per la pallavolo, scoperta da molti, primi fra tutti i giornalisti sportivi, solo dopo aver conquistato tutti i trofei possibili. E ancora il judo, il tiro con l’arco, il canottaggio, il tiro al piattello. Il tutto dura qualche mese, a volte un anno, dopo di che si torna al solito calcio. Calcio parlato, calcio giocato, calcio litigato, calcio truffato, calcio in tutte le salse possibili e immaginabili.
Terzo. In realtà, nella maggior parte dei casi, i risultati in questione sono fondamentalmente dovuti solo all’impegno e ai sacrifici del singolo atleta. Atleti che, ricordiamolo, spesso non sono dei professionisti e quindi devono lavorare per campare. Atleti che si svegliano alle cinque di mattina per allenarsi prima di andare al lavoro, atleti che si pagano da soli molti dei costi di trasferta per le prime gare e che spesso sono in bolletta, atleti che si rompono, si spezzano, si massacrano sia sul piano fisico che psicologico per poi risorgere più volte, stringendo i denti, lontano dalle luci dei riflettori. Si potrebbe fare un film con ognuna delle loro storie, altro che Rocky Balboa. Eppure noi abbiamo atleti che hanno vinto l’oro alle olimpiadi e che, tornati a casa, si sono ritrovati tagliata la luce perché non avevano i soldi per pagare la bolletta. Se pensiamo che molti calciatori se ne possono restare a riposo un anno per acciacchi vari o peggio, per motivi psicologici, e ancora guadagnare in quell’anno più di quanto io o voi potremo mai guadagnare in dieci, viene da pensare che nel mondo dello sport ci sia veramente qualcosa di sbagliato.
Quarto. Dopo la prima vittoria a sorpresa, per un po’ l’Italia continua a vincere in quella specifica disciplina sportiva. Un po’ perché l’atleta che ha vinto continua spesso a farlo per un certo numero di gare, sfruttando il momento magico, un po’ perché si crea una sorta di effetto trainante, per cui si porta dietro due o tre discepoli che seguono le orme del maestro e portano a casa diversi risultati di rilievo. Poi tutto sparisce nel nulla. Il campione, passati alcuni anni, cede il passo a nuove leve, ovviamente straniere, i discepoli incominciano a fare flop, diventano il favorito italiano di cui sopra, quello che delude. Nessuno si interessa più a quella disciplina sportiva, i giovani disertano i corsi e tutti volgono lo sguardo alla nuova sorpresa. E tutto ricomincia da capo.
E così per qualche anno abbiamo la valanga rosa, poi quella azzurra, poi un oro nel tiro con l’arco, un’altro nel judo, una vittoria nella vela o nel windsurf e così via. A macchia di leopardo. Solo la scherma e, come già detto, gli sport di squadra, riescono a dare una maggiore continuità ai nostri medaglieri. In alcune discipline, come il tennis o peggio ancora il golf, siamo quasi del tutto assenti. Ma già, a chi volete che interessi il golf, in Italia? Perché questo è il punto fondamentale: noi ragioniamo con lo stomaco. Ci innamoriamo di un campione o di uno sport se vince, lo snobbiamo e lo critichiamo se perde, come è successo per Azzurra. Allora ecco che tutti diventano dei maestri, degli esperti, ignorando o volendo ignorare che dietro, non solo alle vittorie, ma anche alle sconfitte, ci sono anni di lavoro, anni di allenamenti durante i quali quegli atleti hanno dovuto fare tutto da soli.
Certo, abbiano il CONI, abbiamo le tante federazioni sportive, spesso più interessate ai loro giochetti politici interni che a sostenere realmente lo sport in Italia, calcio a parte, ovviamente. La verità, infatti, è che la maggior parte del denaro gira attorno al calcio e, saltuariamente, alla pallacanestro, alla pallavolo e al ciclismo. Poi, quando capita, c’è l’atletica, lo sci, la scherma e il nuoto. Tutte le altre discipline sono praticamente ignorate. Se non fosse stato in passato per le Fiamme Gialle e alcune associazioni sportive particolarmente intraprendenti, molti atleti non avrebbero avuto alcuna speranza di emergere. Perché per diventare campioni purtroppo servono anche i soldi. Soldi per vivere, soldi per le trasferte, per iscriversi alle gare, per l’attrezzatura, per le cure mediche. Tanti soldi.
E ritorniamo alla sorpresa. Non c’è da stupirsi, dunque, se tutti rimangono sorpresi da queste vittorie, dato che non sono il risultato di un piano ben preparato, di un’organizzazione che gestisce vivai di giovani atleti, che promuove ogni possibile disciplina sportiva, che li sostiene economicamente agli inizi, che li allena con le tecniche più avanzate, come succede invece negli Stati Uniti e da alcuni anni anche in altre nazioni, soprattutto europee e dei Paesi del Commonwealth. Non c’è da stupirsi se, passato l’effetto sorpresa, tutto svanisce come un sogno, perché nessuno investe su quello specifico potenziale. Nessuno dice: «Nelle prossime olimpiadi vogliamo che l’Italia vinca almeno tre ori nello scatto, due nelle marce, uno nei lanci e uno nei salti; che vinca almeno un oro nelle arti marziali e nella lotta, che raggiunga risultati di rilievo negli sport di mare o nelle varie discipline di tiro». Nessuno pianifica, seleziona, allena, sviluppa in modo da creare un gruppo di atleti in grado di portare il nostro Paese ai primi posti in tutte le discipline sportive.
Eppure il potenziale c’è. In questo momento di Simeoni, Mennea, Cova, Damilano, Pezzo e via dicendo — e per ognuno che ne ho nominato ne ho tralasciati decine — ce ne sono a centinaia nel nostro Paese. Molti non emergeranno mai, sottratti alla fama e alla gloria dalle esigenze di ogni giorno, o perché non hanno avuto il sostegno giusto al momento giusto, o semplicemente perché nessuno li ha scoperti e neanche loro sanno quello che avrebbero potuto essere. Ragazzi e ragazze, soprattutto queste ultime, che potrebbero competere alla pari con americani, russi, tedeschi, cinesi e australiani. Basti pensare quanto poco spazio si dà in Italia allo sport femminile. E nonostante molte vittorie di atlete, sia singole che in squadra, ancora oggi lo sport in rosa è uno sport orfano di sponsor e ignorato dai media.
E allora, invece di dedicare 20 minuti di TG Sportivo agli allenamenti della Nazionale di calcio e ai tanti gossip che ogni settimana ci dobbiamo sorbire su quel calciatore o su quell’allenatore, salvo poi annunciare frettolosamente e senza neanche l’ausilio di un servizio, l’oro vinto da una nostra nazionale femminile in questo o quel mondiale, o quello vinto da un atleta del tutto sconosciuto in qualche disciplina ai più ancor più sconosciuta, iniziamo a mostrare agli italiani quanti stupendi sport esistono, quante persone dedicano loro tempo e impegno, diamo loro la visibilità che meritano. E il CONI e le altre federazioni sportive, inizino a cooperare per gestire lo sport nel nostro Paese in modo più sistemico, invece di lasciare che il primato o la medaglia del momento nascano da un evento contingente e spesso non ripetuto, frutto del sacrificio del solo atleta.
Affinché il prossimo oro non sia più una sorpresa.
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