Fra le varie rubriche del «Corriere della Sera» ce n’è una che raccoglie i comunicati aziendali che diverse società pubblicano in relazione alle nomine di dirigenti a posti di una certa rilevanza. Una sorta di rassegna stampa delle poltrone più importanti delle aziende italiane. È tenuta da Felice Fava, si trova nelle pagine del quotidiano dedicate all’economia e alle carriere e si intitola «Cambi di poltrona».
Stavo appunto leggendola la scorsa settimana, quando mi sono reso conto di un aspetto alquanto curioso: mentre dei manager di sesso maschile era sempre riportato, oltre che il nome e la carica, anche l’età, così non era per quelli di sesso femminile. L’età di un manager non è un aspetto secondario, dato che rappresenta comunque, assieme ad altri aspetti come l’incarico al quale è stato assegnato e la società nella quale lavora, un’indicazione sia d’esperienza che d’intraprendenza e capacità. Ad esempio, diventare direttore generale o amministratore delegato di una società di successo a 35 anni è segno di una riconosciuta competenza e di una solida reputazione nell’ambiente.
Questo vale sia per i manager di sesso maschile che di quelli di sesso femminile, ovviamente. Eppure, nel caso di quest’ultimi, l’età non era mai riportata. Così ho scritto al Sig. Fava e gli ho fatto presente le mie perplessità. Riporto qui, dopo essere stato autorizzato a farlo, la risposta che cortesemente e puntualmente mi ha spedito via posta elettronica:
La scelta è dovuta solo al fatto che spesso le donne non amano rivelare la loro età, divulgarla sulle pagine di un quotidiano diffuso è ancora peggio. A volte abbiamo difficoltà a farci dare da loro persino le foto. Omettere l’età delle donne manager ci è sembrato un gesto di cortesia e anche di praticità. Dovendo inserirla per tutte, ci saremmo scontrati con chi desidera tenerla riservata a tutti i costi. Giudichi lei se la nostra decisione è stata opportuna.
Felive Fava
Non discuto la scelta del Corriere: stante quanto riportato dallo stesso giornalista, probabilmente anch’io avrei evitato situazioni imbarazzanti conformandomi a quella che sembra un’abitudine consolidata in molti Paesi occidentali. Devo tuttavia rilevare la contraddizione intrinseca che esiste nel voler nascondere la propria età da parte di quello che forse è il simbolo più eclatante dell’emancipazione femminile e delle pari opportunità nel mondo del lavoro: la donna in carriera. Sinceramente non avrei trovato nulla di strano se anche dei manager di sesso femminile fosse stata riportata l’età, anzi, non lo avrei neppure notato, dato che quando leggo questo genere di comunicati quello che mi interessa è sapere chi è stato nominato a quale incarico e in quale società: che sia uomo o donna è del tutto irrilevante. Devo tuttavia constatare come in realtà si sia ben lontani ancora da una reale parità fra sessi a livello culturale, e non solo per la presenza tuttora di discriminazioni sessiste, ma perché certi atteggiamenti, certi comportamenti che sono conseguenti a una società di tipo maschilista, sono così consolidati che le prime a mantenerli e alimentarli sono le stesse donne, persino quelle che ritengono di essere emancipate.
L’intero problema della parità fra uomini e donne è oggi affrontata in modo da accentuare ancora di più le differenze fra i sessi piuttosto che cercare di sfumarle là dove non sono rilevanti. Pensiamo ad esempio alle quote rosa, oppure al fatto che nelle notizie si evidenzia sempre in modo particolarmente esplicito la presenza di una donna in particolari settori, come le forze armate o l’imprenditoria. Avete notato che quasi ogni volta che c’è una conferenza stampa della Procura al telegiornale, sullo sfondo c’è sempre almeno un poliziotto di sesso femminile? Se tre soldati americani vengono catturati in Iraq la notizia viene data in tre righe, ma se fra loro c’è una donna, allora tutti i media fanno a gara per raccontarti vita, morte e miracoli della soldatessa in questione. Non farlo significa agire in modo politicamente scorretto: c’è il sacro terrore di essere considerati maschilisti.
Il problema, in tutto ciò, è che si sta passando da un sessismo di un tipo, ad uno di polarità opposta, con buona pace del concetto stesso di parità. Un esempio è il cosiddetto Ministero delle Pari Opportunità che, qualunque sia il colore del governo, prevede solo ed esclusivamente iniziate a favore delle donne, ignorando il fatto che ci sono molti casi di discriminazione sessista anche nei confronti degli uomini e soprattutto che il concetto di pari opportunità dovrebbe essere esteso a molti altri tipi di discriminazioni, come quelle nei confonti dei disabili, ad esempio.
In pratica il femminismo si è trasformato da un movimento per la parità dei diritti fra sessi in una sorta di maschilismo del terzo millennio. Se c’è un concorso a, diciamo, 10 posti in un certo ente, e al quale partecipano migliaia di concorrenti di entrambi i sessi, ad esempio, nessuno avrà mai il coraggio oggi di mettere nei primi dieci posti nove uomini e una donna, anche se una classifica oggettiva dovesse dare quello come risultato. Si avrebbe il terrore di essere accusati di discriminazione. E così, spesso, per evitare tale infamante accusa, si finisce magari per discriminare realmente qualcuno. Una vera società libera da sessismi non si porrebbe questo genere di problemi, più di quanti se ne porrebbe la nostra se i dieci candidati selezionati fossero nove bruni e uno solo biondo, o nove alti e uno solo basso di statura.
Ci troviamo così di fronte a un paradosso: da una parte abbiamo una società che cerca in tutti i modi di presentare un’esteriorità di rispetto del principio di pari dignità e opportunità fra i sessi, dall’altra abbiamo che nella realtà non solo tale esteriorità porta a discriminazioni di carattere opposto, ma molte discriminazione nei confronti delle donne comunque persistono e soprattutto molte donne sono le prime ad essere rimaste legate a brandelli di una cultura maschilista della quale non riescono a liberarsi, piccoli privilegi che questa concedeva alle donne e che sarebbe ben poco prezzo abbandonare per una reale parità di diritti fra i sessi.
Questo è solo uno dei tanti paradossi dei quali parlerò nelle prossime settimane e che contribuiscono a mantenere quella che ho battezzato «La Società dell’Ipocrisia». Non è un caso se i primi a sbandierare la parità di diritti fra sessi nei loro programmi siano proprio i politici, salvo poi guardarsi bene dall’applicare tali principi all’interno dei loro partiti. Oltre metà dell’elettorato è rappresentato da donne: se ogni elettrice votasse solo per una candidata di sesso femminile, anche se solo un decimo dei candidati nelle liste fossero donne, avremmo un Parlamento composto da almeno il 40% di deputate e senatrici. Così non è: le donne nelle liste vengono messe spesso solo per accedere a determinati benefici previsti dalla legge, ma non esiste un reale interesse ad aumentare il numero delle parlamentari, neppure e soprattutto da parte di quelle che in politica sono già da tempo. Sfruttando infatti la sindrome descritta in precedenza, ovvero la paura di molti di essere considerati maschilisti, l’essere in poche in Parlamento permette loro di accedere a tutta una serie di incarichi assegnati non per merito, ma per il puro mantenimento dell’esteriorità. Più donne significherebbe più concorrenti e quindi meno opportunità per ciascuna. Un aspetto che si vede spesso anche in molte aziende: l’avversario più temuto oggi dalle donne in carriera non sono gli uomini, come un tempo, ma le altre donne. E la discriminazione a volte fa gioco a quelle che sono già riuscite a imporsi, come ulteriore strumento per mantenere il potere. Alla fine, sempre di più, a portare la bandiera delle pari opportunità sono proprio, per assurdo, molte categorie maschili, come i casalinghi, i papà separati e molti, molti giovani che non hanno alcun problema a confrontarsi alla pari con le loro controparti femminili, né a svolgere attività una volta considerate appannaggio delle sole donne. Ancora una volta ci troviamo di fronte al tentativo di dividere la società in schiere contrapposte, come già avviene nel mondo della politica fra centrodestra e centrosinistra, categorie costruite ad arte per evitare che la gente si confronti nell’unico modo che sarebbe veramente sano: da una parte le persone oneste, di buona volontà, capaci, desiderose di migliorare questa nostra società per loro e per le generazioni future, dall’altra parte i furbi, gli intolleranti, gli incapaci. Ma questa è solo un’utopia…
ti do perfettamente ragione. In realtà quello che descrivi non è il femminismo, ma una sua deformazione. Ci sono femministe per la parità (come la sottoscritta) e femministe rabbiose che vogliono ribaltare i ruoli. Al giorno d’oggi purtroppo le seconde sono la maggioranza. La storia del non far sapere la propria età è una delle cose più assurde, perchè una donna dovrebbe essere fiera di sperimentare e vivere le sue tre età, dato che ognuna porta con sè degli insegnamenti. Evidentemente ad alcune far sapere di aver superato gli “anta” le fa sentire con un piede nella fossa e magari non più idonee per “rimanere in gara”.
Le quote rosa sono un’altra idiozia che premia quello che si ha nelle mutande piuttosto che quello che si ha in testa.
Le donne in carriera spesso sono delle iene, è vero, ma spesso questo accade per in certi ambienti per essere considerata la metà devi fare doppia fatica… parlo delle piccole e medie aziende. Quelle più grandi, invece, sono vittime dello pseudo-femminismo di cui parli.
Concordo in pieno con quanto hai detto. Una vera femminista è una donna che non si cura né di scimmiottare certi atteggiamenti “maschili”, né di combatterli: cerca di essere solo se stessa e pretende giustamente di essere giudicata solo per le sue qualità e i suoi meriti, senza discriminazioni ma anche senza privilegi (che la sminuirebbero). Purtroppo sono poche, ma quando si incontrano è un piacere confrontarsi con loro per noi uomini, almeno per quelli che non hanno paura del confronto (e sono pochi anche loro).
Ciao, ti segnalo questo articolo sul tema della parità reale in Italia.