Il vecchio alzò la testa: anche l’ultima cresta si era sciolta in un orlo di trina grigia azzurra che risaltava sullo sfondo porpora e oro che il sole morente aveva dipinto nel cielo nella direzione dove l’aquila seguiva l’orso. Dei monti non era rimasta traccia, solo un’ombra fuggente che già si confondeva col terreno perso nel primo buio della sera.
Era arrivato il momento. Il vento già gli stava portando la voce dei suoi avi, la voce del nonno che come lui e che prima di lui aveva percorso quel sentiero. Come gli aveva detto Aquila Ridente, lui avrebbe saputo quando fosse arrivato il momento e infatti ora era lì, senza dubbi, senza rimpianti. Si era dissetato a lungo alla sorgente della vita: a grandi sorsi, da giovane, senza aspettare di averne finito uno che già le mani si immergevano di nuovo nel liquido ambrato; assaporandoli lentamente, uno per uno, da vecchio, gustandoli fino in fondo fino a sentire il retrogusto amaro della terra che ne intorbidiva il fondo. Eppure quella terra era la sua vita, e la sua vita era terra, e cielo, e vento. Presto anche lui si sarebbe lasciato trasportare dal soffio della sera per volare fino alle nuvole da dove avrebbe vegliato sul suo popolo e sul suo seme.
Da giovane era stato un grande guerriero; si era guadagnato il suo nome, Orso che Balla, perché ogni volta che vinceva un nemico, fosse uomo o fiera, aveva danzato sul suo corpo e lo aveva onorato con il suo canto. Aveva avuto tre mogli e molti figli e figlie, aveva conosciuto la gioia e il pianto e li aveva spesi assieme e separatamente, come si conveniva a chi rispettava la vita qualunque frutto porgesse, quello dolce e quello amaro, quello acerbo e quello maturo. Aveva avuto tutto, e quello che non aveva avuto non lo aveva desiderato. Aveva perduto tutto, e quello che non aveva perduto non lo aveva amato. In una parola, aveva vissuto. Ora era tempo di restituire alla terra quel corpo che non gli apparteneva e di liberare lo spirito che aveva riscaldato il suo cuore.
Il vecchio raccolse il bastone e iniziò la salita. Presto il sole sarebbe scomparso all’orizzonte e allora lui avrebbe accolto gli spiriti dei suoi avi per l’ultima veglia. Poi, col mattino negli occhi e il primo sole a riscaldare la terra gelata, sarebbe andato con loro, finalmente libero di tornare a cacciare la lepre e il cervo nei verdi pascoli del cielo.
Non so se un Orso che Balla sia mai esistito, nè se abbia veramente salito quella china per andare a morire, sereno, sulla collina dalla quale poteva osservare il suo villaggio e le montagne che lo circondavano, ma una cosa è certa: sono state molte le culture antiche che, come quella nativa americana, hanno rispettato e onorato il diritto di un individuo di scegliere il momento della propria morte. Non solo la morte che lenisce il dolore e pone una rapida fine alla sofferenza della malattia, ma la morte consapevole di chi ha finito la recita sul palcoscenico della vita e ha deciso per la propria dipartita il momento migliore, quando ancora il corpo si può ergere fiero seppure indebolito dagli anni e la mente sa ancora discernere la realtà dal sogno. E ancora: la morte del guerriero che non ha paura di affrontare la battaglia per difendere ciò in cui crede e coloro che ama, perché l’ha presa per mano ancor prima di afferrare le armi ed è pronto a danzare con lei per offrirle lo spirito caldo dei suoi avversari lasciando al fato la decisione ultima se dovrà accompagnarli o meno. E ancora: la morte di chi sta vedendo la propria dignità dissolversi nella malattia e vuole fissare nel cuore e nello sguardo dei propri cari un ultimo momento sereno, risparmiando a sé e a loro una lunga e inutile agonia.
Purtroppo la nostra società è aliena a questa cultura di dignità e rispetto dell’individuo e delle sue scelte, al punto da non negare soltanto il diritto di poter scegliere il modo e il tempo della propria morte, ma da arrivare a negarlo persino a chi sta soffrendo, persino a un malato terminale, cioè a qualcuno che è ormai comunque condannato. La religione ha preteso un alto prezzo all’uomo, togliendogli il possesso di sé stesso, il diritto e la libertà di disporre del proprio essere in quanto dono di un dio e non semplice contenitore della consapevolezza di sé. Una religione che ha stampato un’impronta così profonda nella nostra cultura da plasmare persino le coscienze di chi in essa non crede.
Ecco perché ho scritto questo breve racconto ed ecco perché son qui a rivendicare quel diritto che va ben oltre al semplice diritto di morire quando ormai la morte ci sta già cullando e ogni suo dondolio ci strappa brandelli di sofferenza e la nostra anima si deve specchiare nel crudele disfarsi della carne. Io rivendico il diritto alla dignità, alla scelta consapevole, perché se quella della nascita non ci è stata concessa, quella della morte ci può ancora essere data sempre che la morte stessa non abbia deciso altrimenti, unica giudice davvero a poterci privare di essa. Rivendico il diritto di decidere come e quando salire quella collina, come e quando uscire di scena e abbandonare questo mondo lasciando agli altri, di noi, il ricordo di ciò che siamo in quell’ultimo momento e non di ciò in cui la vita può trasformarci se di tale diritto siamo privati.
Rivendico il diritto di morire.
ciao dario, abbiamo appena oggi allacciato un’amicizia, sia pur virtuale, su facebook.
ho voluto curiosare su ciò che avevi postato e mi sono fermata su questo articolo.
mi ha riportata indietro di qualche anno, quando vedendo mio padre intraprendere un lungo sentiero verso “un viaggio senza ritorno” , con il cuore spezzato dal dolore, mi chiedevo se fosse giusto che “un grande guerriero… che aveva vissuto con dignità e orgoglio e che ora vedeva la propria dignità dissolversi nella malattia” non potesse essere libero di scegliere quando e come allontanarsi da questo mondo che gli aveva dato tutto ma che gli stava levando tutto, senza pietà…
lui avrebbe fatto la stessa scelta dell’Orso che Balla, ne sono pienamente sicura.
grazie per avermi dato la possibilità di pensare a lui “finalmente libero nei verdi pascoli del cielo” ,
condivido la tua rivendicazione, perché è un diritto, ma penso, purtroppo, che ciò potrà succedere solo quando la società in cui viviamo, saprà il significato testuale della parola “dignità” di ogni essere umano.
ciao ghirmawit
Ghirma, grazie per avermi ricordato che in effetti di «grandi guerrieri» (e guerriere) che si sono guadagnati il diritto a una fine dignitosa, ce ne sono molti anche oggi. Un abbraccio e un segno di rispetto per tuo padre.
S’ebbene(a dire il vero)non mi sia soffermato piu’di tanto sul racconto,non ho potuto non accorgermi che proprio in questi minuti del 9 febbraio (nel ’92) moriva Mio Fratello…….e nonostante il mio piu’che ovvio egoismo,ora,iper-sviluppatosi ,non preferirei saperLo vivo,e magari in coma o simili.Contrariamente a quello che ha scorreggiato berlusconi,non sarebbe un “peso”, ma s’emmai un”aiuto morale”per chi e’Davvero Vivo……..in poche parole UCCIDEREI Mio Fratello,piuttosto che saperLo vivo per forza……..
ah!Ciao Dario,sono Marco Cru
Ciao Marco