Era il 4 luglio 1776 quando, a Philadelphia, venne approvata la Dichiarazione d’Indipendenza di quelli che in seguito sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America. Essa contiene forse la summa di quelli che furono i principi dell’Illuminismo di libertà e uguaglianza fra gli uomini, principi che ancora oggi stentano ad essere pienamente accettati anche in Paesi che, come il nostro, si dicono democratici:
Tutti gli uomini sono creati liberi e uguali e hanno uguale diritto alla vita, alla libertà, alla ricerca della felicità. Ogni qual volta un governo tende a negare questi fini, il popolo ha il diritto di mutarlo o di abolirlo e di istituire un nuovo governo nella forma che il popolo ritenga più adatta a procurare la sua sicurezza e la sua felicità.
Se la leggiamo con attenzione, non è difficile rendersi conto di come essa sia molto più rivoluzionaria di quanto si possa pensare, anche per i giorni nostri. Tanto per cominciare essa stabilisce che nasciamo tutti uguali e con gli stessi diritti. Tuttavia, da lì in poi, sta a ogni individuo cercare la propria strada. Questa affermazione pone implicitamente le basi per un sistema meritocratico in cui a tutti vanno date pari opportunità ma non garantito pari successo. Quello ognuno se lo deve conquistare con i propri mezzi. Questo modo di pensare è lontano anni-luce da quello italiano dove le meritocrazia sembra quasi una brutta parola che nasconde al suo interno una discriminazione implicita di una parte del popolo. E in effetti è vero: la meritocrazia discrimina gli stupidi, i furbi, i fannulloni, i parassiti, ovvero tutte quelle classi sociali che da noi sono protette, soprattutto da un sistema giudiziario che libera terroristi e condanna chi difende sé e la propria famiglia; di una società che sostiene nei divorzi, in nome di un falso femminismo, una cultura del mantenimento che è l’antitesi dei principi femministi; di un sistema politico che libera ladri ed assassini perché non è stato capace di gestire e amministrare in modo intelligente il sistema carcerario. Da noi le parole d’ordine sono garantismo e assistenzialismo, principi in sé non necessariamente negativi: tutto sta a vedere cosa si garantisca e chi e come si assista.
Un secondo punto sul quale vorrei attirare l’attenzione è la ricerca della felicità. Dopo la "vita" e quindi anche la "sicurezza", dopo la "libertà" e quindi tutte quelle libertà che rappresentano diritti fondamentali dell’essere umano, ecco che al terzo posto viene la "ricerca della felicità". Potrebbe far sorridere, ma non è così. Vivere non ha senso se la vita non ha una sua qualità e dignità. Avere semplicemente da mangiare o un tetto sotto il quale dormire non è sufficiente per un illuminista e liberista. Quanto diversa è questa affermazione da quella dell’articolo uno della nostra Costituzione che afferma che il nostro Paese «è fondato sul lavoro». E lo è in effetti, perché tutti i parassiti e i furbi che in Italia spesso hanno il potere, campano sulle spalle degli altri, ovvero di chi davvero lavora. Il punto è che nella nostra Costituzione è lo Stato ad avere il primato sul cittadino, proprio il contrario di quanto affermato nella dichiarazione d’indipendenza americana. La nostra Costituzione rappresenta quindi un peccato originale, causa prima di una cultura e una mentalità incapace di premiare il merito e l’iniziativa individuale, un brutto compromesso fra liberismo, cattolicesimo e socialismo nato da una particolare contingenza storica e ormai del tutto obsoleto quanto lo sono fascismo e comunismo.
La ricerca della felicità ha poi un corollario molto importante. Poter cercare la felicità vuol dire poter cercare di realizzare i propri sogni e questo in una società come la nostra — quella italiana, intendo — dove tutto ciò che non è permesso è di fatto proibito, non è di fatto possibile. Da noi lo Stato entra nel merito di tutto, spesso a sproposito. La ricerca della felicità quindi implica che tutto ciò che non è proibito o regolamentato sia permesso, e che va proibito e regolamentato solo il minimo possibile. Lo Stato deve garantire i più deboli, sostenere e aiutare chi oggettivamente non ha mezzi e risorse, non impedire a tutti gli altri qualsiasi iniziativa o renderla di fatto irrealizzabile caricandola di tasse e balzelli. Il nostro, invece, è il Paese delle non-opportunità, dove il termine "visionario" vuol dire "pazzo", nel migliore dei casi "idealista" e non, come nella cultura americana, colui che è capace di vedere oltre, che ha una visione più ampia, ovvero una risorsa preziosa su cui costruire il futuro di un Paese.
E veniamo alla seconda parte della dichiarazione sopra riportata. Sembra esprimere il diritto dei cittadini a eleggere i propri rappresentanti per il governo dello Stato, ma in realtà è molto più forte di quanto appaia a una prima lettura. Essa infatti afferma il diritto dei cittadini ad abolire un governo che non rispetti i principi sopra esposti, non semplicemente di non riconfermarlo alle elezioni successive. Non solo: stabilisce il diritto di poter decidere di cambiare addirittura la forma di tale governo, non solo il governo in sé. Volendo applicare tali principi all’Italia, vorrebbe dire che a un certo punto i cittadini, stanchi di questo sistema parlamentare e di questo falso bipartitismo, potrebbero decidere di annullare tutto e di chiedere, ad esempio, di passare a una repubblica presidenziale. Questo è veramente «potere al popolo», non quella farsa di elezioni in cui ai cittadini italiani non è permesso neppure di decidere chi in effetti debba sedersi in Parlamento e soprattutto che non permette loro di scegliere davvero il Governo, dato che non spetta a loro eleggere il Presidente del Consiglio.
Come italiani, abbiamo molto da imparare da quelle parole, scritte più di due secoli fa. Come Paese, abbiamo poche speranze. Per la nostra classe politica e purtroppo per molti italiani, cresciuti in una cultura troppa abituata al privilegio e ad aspettare che a fare le cose siano gli altri, ci sono poche speranze di vedere riconosciuti tali principi. Anzi, il solo affermare che essi siano validi rispetto a quelli sanciti dalla nostra, di Costituzione, verrebbe quasi considerato un tradimento. Purtroppo i difetti dell’Italia affondano le loro origini nel lontano Cinquecento, quando Lorenzo il Magnifico inventò la cosiddetta politica dell’equilibrio che impedì che anche nel nostro Paese si formasse uno Stato forte e unito come già era avvenuto in Inghilterra, Francia e Germania. Fu tale politica ad aprire le porte dell’Italia alla dominazione straniera con Carlo VIII d’Angiò prima e le Guerre Italiane fra Carlo V e Francesco I di Francia poi. Forse se papa Alessandro VI non fosse morto prematuramente, un’Italia unita sarebbe sorta ad opera di Cesare Borgia alcuni secoli prima di quanto poi avvenne, ma sarebbe stata certo un’altra storia. Non sapremo mai come si sarebbero sviluppati gli eventi. Fatto sta che la mentalità contradaiola e provinciale italiana, incapace di fare fronte unico di fronte ai problemi, sempre pronta alla polemica e a chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, trae le sue origini da quei secoli lontani dai quali non siamo mai davvero riusciti a riaverci. Si parla tanto di federalismo, ma se questo deve essere una brutta copia della divisione amministrativa attuale in cui anche il più piccolo Comune può bloccare importanti iniziative nell’ambito della logistica e dei trasporti delle quali trarrebbe vantaggio tutto il Paese, allora il risultato finale sarebbe una nuova "Italietta" fatta di staterelli autonomi pronti ad essere fagocitati, questa volta sul piano economico, dalle grandi superpotenze del libero mercato, ovvero le Corporation. Neanche la ricca Padania e il Triveneto si salverebbero.
Forse qualcuno penserà che la Storia sono solo date ed eventi lontani, ma non è così. Pochi secoli sono nulla nel cammino di una società e quanto è successo nei secoli che hanno preceduto l’inizio del Terzo Millennio è alla base di quello che siamo noi oggi. Non si possono comprendere gli eventi politici e i cambiamenti sociali che attraversa il nostro Paese se non li si legge in funzione dei secoli che li hanno preceduti. Per un singolo individuo forse essi saranno lontani nel passato, ma per una società è semplicemente passato prossimo. L’influsso di Benedetto Croce e del Crocianesimo, ad esempio, che ha stabilito il primato dell’Umanesimo sulla Scienza, è alla base del profondo analfabetismo scientifico che esiste nel nostro Paese e alla Sindrome di Frankenstein che vede in qualsiasi nuova tecnologia, dal nucleare ai telefoni cellulari, dai termovalorizzatori agli OGM, un tremendo pericolo da ostacolare ad ogni costo. Non parliamo poi del Creazionismo e del fatto che è solo da pochi anni che i Quaderni di Darwin sono stati tradotti in italiano. Poco manca che spunti prima o poi un nuovo Savonarola. Sarebbe la ciliegina sulla torta. E mentre il resto del mondo va avanti e i Paesi emergenti ci superano in ogni classifica, noi sprofondiamo in un limbo sempre più profondo, attingendo alla Storia solo per ricordare fasti passati, dagli Antichi Romani al Rinascimento, dal Risorgimento alla Resistenza, incapaci ormai di crearne di nuovi per le generazioni che verranno.
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