Riporto qui l’ultimo articolo pubblicato da Beppe Servegnini sul blog che ha sul sito del Corriere.it, ovvero Italians. Lo riporto per intero perché non ha un permalink e quindi non ho potuto pubblicare qui un riferimento permanente o utilizzare un trackback.
Così ci guardano i media stranieri
The plot against Italy? Il complotto contro l’Italia, come un romanzo di Philip Roth? Il G8 è stato preceduto da giudizi severi e prese in giro. Prima i media internazionali si sono divertiti con minorenni ed escort, che ormai sbucano come finferli dopo la pioggia. Poi il "Guardian", senza citare una fonte rintracciabile, ha ventilato la nostra espulsione dal G8. Quindi il "New York Times" ha suggerito a Obama di prendere il volante.
Il mondo ce l’ha con l’Italia? No. Ma un certo maligno godimento sembra evidente. Noi dimentichiamo di vivere nel luogo mitico per generazioni di viaggiatori colti – quelli che oggi scrivono e parlano nei media internazionali. Vedere ciò che avremmo potuto diventare, e non siamo diventati, dà il sapore amaro ai commenti. La delusione è il carburante della perfidia.
Ogni nazione offre una narrativa al mondo: e la nostra, da tempo, non è delle migliori. L’Italia 2009 è il surgelato dell’Italia 1994. Max contro Walter, Lega scatenata, Quirinale preoccupato, debito che sale, corrotti in festa. Poi c’è Berlusconi, che noi italiani leggiamo con occhiali speciali, anche perché ci somiglia più di quanto vogliamo ammettere (entusiasmo e incoerenza, affabilità e inaffidabilità, difficoltà a distinguere tra pubblico e privato). Ma le lenti italiane non vengono esportate: gli stranieri guardano gli affari nostri con occhi loro. Le ultime vicende sono strabilianti: sesso e potere, lusso e tivù, silenzi e bugie, famiglie difficili e ragazze facili. L’età della deferenza è finita con Diana, nelle cui lenzuola ha guardato il pianeta. Negli anni ’60, Bob Kennedy poteva farsela con Jackie sotto il naso della moglie; negli anni ’90 sarebbe finito sui giornali; negli anni Duemila si troverebbe il video su YouTube. Se Gordon frequentasse un’ipotetica Noemi inglese, i tabloid lo farebbero a fettine come il tacchino servito nei picnic di Ascot. Se Barack usasse la Casa Bianca come Palazzo Grazioli, i consiglieri lo fermerebbero (vero, Ghedini?). Se Nicholas si contraddicesse come Silvio, Carla l’appenderebbe alle finestre dell’Eliseo. Noi italiani siamo diversi? Elastici, spontanei, tolleranti? Cattolici libertini? Moralisti à la carte? Benissimo. Gridiamolo al mondo: siamo un ossimoro nazionale, il primo della storia! Silvio B. è l’autobiografia onirica del Paese: fa ciò che molti sognano!
Invece, stiamo zitti: per pigrizia e pudore da una parte, per timore e servilismo dall’altra. La nostra TV – parliamo di prima serata, dopo siamo tutti liberali – complica le cose, mostrando riflessi di regime: le Istituzioni si scrivono con la maiuscola, e vanno protette, anche se ne combinano di tutti i colori. Poi è chiaro: il mondo ride, e noi ci restiamo male.
Sul contenuto dell’articolo in sé niente da dire. Si può più o meno essere d’accordo, ma non mi ha particolarmente scandalizzato o entusiasmato. È una fotografia che può essere anche condivisibile, anche se magari fa poco piacere ammetterlo. Il motivo per cui l’ho riportato non è quindi tanto per quello che ha detto Severgnini, quanto per quello che non ha detto. Ovviamente si tratta di una mia opinione personale, tuttavia il discorso da lui iniziato si presta anche a un’altra considerazione.
Il fatto è che sempre più i media, non solo quelli provinciali del nostro Paese, ma anche quelli che hanno fatto la storia del giornalismo all’estero, stanno diventando semplici aggregatori di gossip e di notizie di dubbio spessore, venendo meno a quel ruolo di responsabilità sociale che è l’essere una fonte affidabile, competente e super partes di informazioni e notizie.
Ogni tanto mi capita di discutere di questo con amici giornalisti e quello che viene fuori sostanzialmente è che la necessità sempre più pressante di essere i primi a dare la notizia — o meglio di non essere i secondi, dato che ormai tutti si allineano a dire le stesse cose e a pubblicare gli stessi articoli, spesso con gli stessi titoli copiati pari pari dalle veline di qualche agenzia di stampa — fa sì che dietro all’articolo stesso non ci sia più quell’attività di ricerca e comprensione che ha sempre caratterizzato il grande giornalismo, ma piuttosto un’attività che diventa sempre più simile a quella di scopiazzatura che caratterizza molti blog in rete.
Il problema è che per dare spessore a una notizia, per verificare le fonti, per comprendere le cause, per capire quale sia davvero la notizia al di là della sua esteriorità più apparente, bisogna dedicargli del tempo, fare verifiche e controverifiche, e ovviamente avere una buona rete di informatori e tanta esperienza nel settore specifico, qualunque esso sia. Tutto ciò non permette di pubblicare qualcosa pochi minuti dopo il fatto, specialmente in rete dove la pubblicazione è continua e non periodica, come invece avviene nel mondo della carta stampata o per i telegiornali.
Così sempre più editori impongono ai direttori di giornali e notiziari di stare sul pezzo, di uscire rapidamente, di non perdere tempo per approfondimenti ma semmai di trovare titoli forti, aggressivi, persino non attinenti poi al contenuto dell’articolo. Più di un amico si è poi lamentato di come certi argomenti siano tabù, certe parole non si possano usare, certe notizie non debbano passare o, se passano, devono avere poca visibilità. Il tutto in funzione di chi possiede il giornale, come è orientato, o anche semplicemente per fattori contingenti di realpolitik.
Non succede solo da noi. Persino negli Stati Uniti, fiaccola da sempre dell’informazione indipendente, i media stanno perdendo sempre più quel loro carattere di informatore competente per diventare semplice tam tam mediatico. Basti pensare all’ultimo incidente in cui sono incorsi il famoso scrittore Jared Diamond e il New York Times.
In un mondo in cui (gli stessi) reality show imperversano e proliferano in modo impressionante, in cui i funerali di Michael Jackson si guadagnano dirette e spazi sui notiziari che fanno impallidire quelli dedicati alla crisi economica e alle proteste in Iran, in cui i giornali riportano decine di notizie come «Gli rompono la chitarra in aereo — Cantante si vendica con video sul Web» oppure «Lula regala a Obama la maglietta n.5 del Brasile», in cui insomma si va a stimolare più la curiosità, le fregole da voyeur di lettori e spettatori piuttosto che il loro cervello, la deriva di quotidiani e telegiornali verso lo spettacolo a tutti i costi non deve poi così stupire.
Certo, se pensiamo a giornali e notiziari radiotelevisivi come semplici prodotti commerciali, se ammettiamo che in fondo è questo che vuole la gente e che di una guerra interessano più le scene da film hollywoodiano con quanto più sangue e scoppi possibile che un approfondimento sulle cause e sui possibili sviluppi del conflitto, allora è giusto così. Ma è questo il giornalismo? È veramente questo che vogliamo? Perché se è così, alla fine, che differenza c’è fra un telegiornale e un film di avventura, fra un articolo su un quotidiano e un buon racconto di fantasia? Se l’informazione deve essere solo intrattenimento, se gli articoli sul G8 su come le First Ladies hanno speso il loro tempo devono prendere altrettanto spazio di quello sulle resistenze di Cina e India a interventi seri in campo ambientale, allora fa bene Berlusconi a fare quello che fa, ovvero lo show man. E tutti gli altri, quelli che ancora non lo hanno copiato, sono semplicemente “indietro”.
La sua analisi del giornalismo di oggi è spietata ma assolutamente vera. Condivido appieno.