Questa è una versione semplificata dell’articolo originale, “The Definition of Intelligence”, Seoul National University, Journal of Cognitive Science, Volume 16, Issue 2, Pages 107-132, March-June 2015, ISSN 1598-2327.
Riassunto
Del concetto di intelligenza sono state molte definizioni, ma non è mai stata sviluppata una definizione operativa che ponesse le fondamenta per una misurazione non influenzata dal metodo di misurazione e del tutto obiettiva e applicabile a qualunque individuo indipendentemente dal contesto. Questo articolo si propone lo scopo di fornire una definizione allineata a tali obiettivi.
Che cos’è l’intelligenza? È davvero qualcosa che si può misurare, ovvero, il cosiddetto quoziente d’intelligenza è un parametro affidabile al fine di valutare l’intelligenza di un individuo? E soprattutto, esiste una sola forma di intelligenza o ce ne sono molte? E in quest’ultimo caso, come si fa a paragonarle fra di loro?
Come è stata definita finora l’intelligenza
Non è obiettivo di quest’articolo riassumere tutto quello che è stato detto e scritto in materia. Di bibliografia a riguardo ce n’è in abbondanza. Resta il fatto che al momento in cui scrivo non esiste ancora in ambito accademico una definizione universalmente condivisa di intelligenza. Ovviamente ce ne sono molte, come ad esempio quella sottoscritta da cinquantadue ricercatori del settore nel 1994, e che recita
Dicesi intelligenza una generale funzione mentale che, tra l’altro, comporta la capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e apprendere dall’esperienza. Non riguarda solo l’apprendimento dai libri, un’abilità accademica limitata, o l’astuzia nei test. Piuttosto, riflette una capacità più ampia e profonda di capire ciò che ci circonda — “afferrare” le cose, attribuirgli un significato, o “scoprire” il da farsi.
«Mainstream Science on Intelligence» (1994)
Personalmente non condivido questa definizione, seppure sia concettualmente corretta nelle sue parti. Innanzi tutto perché tende a definire l’intelligenza attraverso tutta una serie di conseguenze del suo utilizzo, ovvero di effetti dei quali l’intelligenza è causa, come il “comprendere idee complesse”. Secondo perché rimanda alla definizione di una serie di capacità a loro volta di complessa definizione, come il concetto di “ragionare”, o la cui espressione è discutibile, come la metafora dell’ “afferrare le cose”. Certo non si può parlare di definizione scientifica.
Un’altra definizione, ancora più articolata, è la seguente:
Gli individui differiscono l’uno dall’altro per la loro capacità di comprendere idee complesse, di adattarsi in modo efficace per l’ambiente, di imparare dall’esperienza, di impegnarsi in varie forme di ragionamento, di superare gli ostacoli riflettendo. Anche se queste differenze individuali possono essere notevoli, non sono mai del tutto coerenti: le prestazioni intellettuali di una data persona varieranno in diverse occasioni, in diversi campi, a seconda dei diversi criteri di giudizio. I vari concetti di “intelligenza” sono quindi tentativi di chiarire e organizzare questo complesso insieme di fenomeni. Nonostante si sia fatta chiarezza in alcuni settori, nessuna di queste concettualizzazioni ha ancora risposto a tutte le domande importanti, e nessuna si è guadagnata il consenso universale. Infatti, quando a due dozzine di eminenti teorici è stato recentemente chiesto di definire l’intelligenza, hanno dato due dozzine di definizioni in qualche modo alquanto differenti.
«Intelligence: Knowns and Unknowns» (1995)
Mi sembra evidente che questa, più che una definizione di intelligenza, sia di fatto una dichiarazione di impotenza.
Resta il fatto che ogni ricercatore e filosofo ha provato in passato come oggi a dare una definizione di questa facoltà. Non si tratta solo di mera curiosità: oggi più che mai è importante riuscire a capire se un certo essere vivente sia intelligente o meno soprattutto perché stiamo incominciando ad accettare il fatto che la vita nell’Universo sia molto più diffusa di quanto pensassimo in passato e non è escluso che prima o poi ci si debba porre il problema se una certa creatura aliena sia davvero intelligente e quanto.
Alcune definizioni di intelligenza parlano di «Giudizio, altrimenti chiamato buon senso, senso pratico, iniziativa, la facoltà di adattare il proprio sé alle circostanze… auto-critica» (Alfred Binet), «La capacità complessiva o globale della persona di agire intenzionalmente, di pensare razionalmente, e di affrontare in modo efficace con il suo ambiente.» (David Wechsler), «…la risultante del processo di acquisizione, memorizzazione nella memoria, recupero, combinazione, confronto, e l’utilizzo di nuove informazioni in contesti concettuali e competenze.» (Lloyd Humphreys), «Innata capacità cognitiva generale.» (Cyril Burt), «La capacità di affrontare la complessità cognitiva.» (Linda Gottfredson), «Comportamento adattivo orientato agli obiettivi.» (Sternberg & Salter), «La propensione unica di esseri umani di cambiare o modificare la struttura del loro funzionamento cognitivo di adattarsi alle mutevoli esigenze di una situazione di vita.» (Reuven Feuerstein).
Come si può vedere si tratta di affermazioni ragionevoli, condivisibili, potremmo anche dire sostanzialmente vere, ma che sembrano cogliere solo alcuni aspetti dell’intelligenza. Se confrontiamo l’intelligenza di un matematico con quella di una persona con grandi abilità nel costruire e quest’ultima con quella di un grande artista o un musicista, ci rendiamo conto che ognuna di queste definizioni è in qualche modo manchevole.
Ad esempio, le definizioni di D. Wechsler e quella di R. Feuerstein puntano molto sul confronto fra un essere vivente e l’ambiente che lo circonda. In effetti tale capacità è sicuramente una delle ragioni che rende l’intelligenza uno dei fattori di successo della nostra specie, ma al di là del fatto che è verosimile come l’interazione con l’ambiente sia stata probabilmente uno stimolo fondamentale all’evoluzione dell’intelligenza nei nostri antenati ominidi, non spiega sufficientemente aspetti dell’intelligenza quali la creatività artistica o lo sviluppo di teorie matematiche senza alcuna apparente utilità.
Sorvolerei su definizioni come quella di A. Binet, che rimanda a una serie di termini dei quali non sempre esiste una definizione univoca, come il cosiddetto buon senso, anche se va evidenziato come anche qui la capacità di adattarsi alle circostanze, ovvero all’ambiente esterno, sia un elemento considerato importante. Resta da capire se questa facoltà rappresenti l’intelligenza o sia semplicemente una conseguenza della stessa.
La definizione più interessante è quella di L. Humphreys, dato che cerca di definire l’intelligenza in base ai suoi meccanismi. Tuttavia non è una definizione operativa, ovvero rende complesso ricavare dalla stessa un possibile esperimento che permetta una misurazione oggettiva di quella che chiamiamo “intelligenza”.
La misurazione dell’intelligenza
Per poter dare una definizione di intelligenza che non sia focalizzata solo su un particolare aspetto o caratteristica di questa facoltà, dobbiamo prima di tutto riconoscere come essa operi apparentemente in molti modi e come il dimostrare di averla in una particolare situazione sia compatibile con il non saperla utilizzare in altre. Una volta fatto questo dovremmo cercare cosa tutti questi modi abbiano in comune e perché si possa essere intelligenti in una situazione e apparentemente incapaci in un’altra. Un esempio classico è quella del genio, magari di un matematico o di un fisico teorico che, benché nel suo campo non abbia rivali, si dimostra del tutto maldestro nell’affrontare situazioni pratiche come il montare o smontare un meccanismo o il disegnare un cagnolino su un pezzo di carta.
Ovviamente in tali abilità è compresa anche una certa capacità manuale e quella che definiamo “tecnica”, peraltro apprendibile attraverso l’istruzione e l’addestramento, ma la maggiore o minore attitudine di certi individui a compiere determinate azioni è anch’essa una manifestazione di intelligenza e quindi è importante capire perché una persona molto intelligente in una materia si dimostri impacciato in un’altra, anche a fronte di un processo educativo inteso a migliorarne le capacità.
Ma quanti tipi di intelligenza esistono? Nella teoria di Cattell-Horn-Carroll (CHC) — una delle più note anche perché alla base dei famosi test di misurazione del quoziente di intelligenza, o Q.I. — si fa riferimento a dieci abilità generali che a loro volta sono suddivise in una settantina di abilità specifiche. Ovviamente non si tratta di forme diverse di intelligenza ma è pur vero che quando una di queste abilità è prevalente sulle altre, viene spontaneo affermare che un individuo abbia un particolare tipo di intelligenza. Un esempio sono quelle persone con capacità mnemoniche eccezionali che tuttavia spesso non si accompagnano alla capacità di risolvere problemi complessi.
Le abilità generali sono le seguenti:
- intelligenza fluida, ovvero legata al ragionamento, ai concetti di forma, e al risolvere i problemi utilizzando informazioni poco familiari o nuove procedure;
- intelligenza cristallizzata, che comprende l’ampiezza e la profondità delle conoscenze acquisite di una persona, la capacità di comunicare la propria conoscenza e la capacità di ragionare con le esperienze precedentemente acquisite o procedure prestabilite;
- ragionamento quantitativo, ovvero la capacità di comprendere i concetti e le relazioni quantitative e di manipolare i simboli numerici;
- capacità di lettura e scrittura, che comprende le capacità basilari di saper leggere e scrivere;
- memoria a breve termine, ovvero la capacità di apprendere e conservare le informazioni nella consapevolezza immediata e quindi di utilizzarle nel giro di pochi secondi;
- memoria e recupero a lungo termine, ovvero la capacità di memorizzare le informazioni per poi recuperarle facilmente nei successivi processi mentali;
- memoria visiva, ovvero la capacità di percepire, analizzare, sintetizzare e pensare con i modelli visivi, tra cui la possibilità di memorizzare e richiamare rappresentazioni visive;
- elaborazione uditiva, ovvero la capacità di analizzare, sintetizzare e discriminare stimoli uditivi, tra cui la capacità di elaborare e discriminare i suoni del linguaggio che possono essere presentati in condizioni distorte;
- velocità di elaborazione, ovvero la capacità di eseguire compiti cognitivi automatici, in particolare quando misurati sotto pressione per mantenere l’attenzione focalizzata;
- tempo di reazione e decisione, che riflette l’immediatezza con la quale un individuo può reagire a stimoli o a un compito.
A queste Kevin McGrew ha proposto un numero di estensioni che includono sia la conoscenza specifica all’interno di un dominio che l’abilità e la rapidità psicomotoria. Altri hanno aggiunto abilità tattili, cinestetiche e olfattorie e c’è da ritenere che la lista non sia ancora completa.
Indubbiamente queste categorie sono molto utili, soprattutto in funzione della misurazione di quella che chiamiamo intelligenza, ma sono a mio avviso misurazioni indirette, ovvero non misurano tanto l’intelligenza in sé quanto la capacità di un individuo di applicarla, tant’è che a seconda dello stato di tensione di un individuo, del coinvolgimento personale o dell’interesse e delle motivazioni personali, tali valori possono fluttuare anche di parecchio nei vari test.
Un diverso approccio
Cerchiamo quindi di andare più in profondità: il nostro obiettivo è trovare una definizione
- semplice ma che comprenda tutti i casi visti in precedenza,
- che permetta di individuare una modalità di misurazione indipendente dal contesto,
- non banale, ovvero il cui essere generale non la renda di fatto inutilizzabile.
Per far questo iniziamo a vedere cosa possono avere in comune tutte le varie forme di intelligenza, o meglio, le abilità che abbiamo menzionato in precedenza. Ad esempio, cosa accomuna un artista e un fisico teorico, un valente meccanico e un ginnasta d’eccezione. E non ho aggiunto quest’ultimo a caso, perché il saper utilizzare il proprio corpo in modo coordinato è anch’essa un’espressione di intelligenza, a mio avviso.
Innanzi tutto abbiamo a che fare con una certa quantità di stimoli e informazioni. Alcuni sono esterni, ovvero sono relativi all’ambiente che ci circonda, altri sono interni, ovvero fanno parte di ciò che abbiamo appreso o che ci è attitudinalmente naturale, se non della nostra stessa fisiologia. Già qui vediamo alcune delle abilità di cui sopra. Consideriamo gli stimoli esterni, ad esempio: essi ci arrivano attraverso i sensi da cui le abilità visive, uditive, tattili, olfattive, gustative, relative al senso dell’equilibrio o alla sensibilità al movimento. In realtà si tratta di una lista limitata. Già solo nell’ambito del tattile dovremmo distinguere la sensibilità al calore e al freddo, alla pressione e al dolore; inoltre qualcuno afferma che anche gli esseri umani, seppure in misura inferiore ad altri animali, abbiano una certa sensibilità anche ai campi elettrici e magnetici.
Diciamo che in generale esistono degli stimoli sensoriali, una reattività più o meno marcata agli stessi, e una capacità interpretativa del cervello a uno o combinazioni di più stimoli. Non per niente si dice che si vede con il cervello, non con gli occhi. La cecità al cambiamento è uno degli esempi di quanto la vista sia legata al modo in cui elaboriamo le immagini che arrivano dagli occhi.
In realtà stimoli e informazioni non sono del tutto indipendenti, ma è importante comunque distinguerli. Uno stimolo può diventare informazione se elaborata dal cervello, mentre un’informazione, ad esempio un ricordo rimosso, può generare inconsciamente uno stimolo. Ci sono tuttavia stimoli che possiamo considerare come tali, quali ad esempio un suono, ed informazioni che non necessariamente generano uno stimolo, come ad esempio una formula matematica. Ovviamente quel suono, una volta correlato a ricordi precedenti, può generare un’informazione, mentre la formula matematica, applicata, può portare a un risultato capace di generare paura o curiosità, ma a questo arriveremo tra poco. Diciamo per ora che stimoli e informazioni sono due elementi differenti anche se a volte si legano in una correlazione uno-ad-uno.
Torniamo agli stimoli. Abbiamo detto che ne esistono di interni: alcuni vengono dal nostro stesso organismo e sono la conseguenza di sostanze chimiche prodotte dal nostro corpo le cui funzioni sono estremamente varie. Un esempio classico sono gli ormoni. Altre sono più legate al nostro cervello e alle informazioni in esso immagazzinate. Ogni stimolo, interno o esterno, infatti, provoca nel cervello una reazione che può portare alla luce ricordi di informazioni e stimoli precedenti che si vanno a sommare a quelli percepiti. Questi meccanismi possono essere consci o inconsci. Pensiamo ad esempio agli esperimenti sui cani effettuati da Ivan Pavlov.
In effetti esiste un altro tipo di stimolo o informazione interna, ovvero quelle generate dallo stesso cervello a seguito dell’elaborazione degli stimoli e delle informazione che gli sono arrivate dall’ambiente o dal resto del corpo. Abbiamo quindi a che fare con un sistema dinamico in continua evoluzione, da cui il concetto di pensiero, ragionamento, ideazione e simili.
Un aspetto importante da evidenziare è che questo insieme di stimoli esiste in qualunque situazione ci si trovi, ovvero è presente sia che si stia parlando di un matematico che cerca di risolvere un problema, di un pittore che sta combinando i colori giusti per rappresentare le foglie di un albero, di un atleta che si appresta a tentare di superare il record di salto in lungo. Ognuna di queste persone, per raggiungere il proprio obiettivo, combina informazioni e stimoli memorizzati con informazioni e stimoli acquisiti in tempo reale.
È importante notare come la velocità di reazione non sia necessariamente qui un fattore fondamentale. Esistono utilizzi dell’intelligenza nei quali l’individuo non ha alcuna necessità e quindi motivazione a essere veloce, altri in cui la velocità è fisiologica al raggiungimento dell’obiettivo, come ad esempio la capacità di prendere decisioni rapide di un pilota da caccia in combattimento.
Dunque la velocità è un fattore importante ma non necessario. Cos’è che allora è necessario e soprattutto, come tale necessità può essere quantificata in modo da sviluppare un metodo di misura che differenzi fra diversi livelli di intelligenza?
Quando abbiamo parlato di stimoli abbiamo dato per scontato un aspetto, ovvero le relazioni fra gli stessi. Un sistema più o meno complesso di informazioni e stimoli è del tutto inutile a un organismo vivente se ogni elemento rimane isolato. Dunque il correlare fra loro questi elementi è un aspetto fondamentale affinché possano essere utilizzati per un qualche scopo. Ovviamente non tutti gli elementi in questione sono correlabili a tutti gli altri: se volessimo dare una rappresentazione visiva a questo sistema potremmo utilizzare un grafo nel quale ogni nodo è un elemento, ovvero uno stimolo o un’informazione, e ogni segmento una correlazione fra gli stessi.
Ovviamente ogni nodo deve essere connesso almeno a un altro nodo. Inoltre alcuni nodi possono formare ammassi più o meno fitti, specialmente se introduciamo una metrica per la quale minore è la distanza fra i nodi, maggiore è la correlazione fra gli stessi. Infatti, una caratteristica di questo tipo di grafi è che ogni sua componente, sia essa un nodo o un collegamento, può avere un peso, ovvero essere considerata più o meno importante. In termini di rappresentazione grafica, potremmo colorare in modo diverso i differenti tipi di nodi — stimoli interni ed esterni, informazioni memorizzate o ricevute dall’esterno — intensificando o affievolendo la tonalità del colore a seconda dell’importanza del nodo, e usare appunto la metrica menzionata per indicare il peso di ciascuna correlazione.
Ebbene la definizione di intelligenza qui proposta si basa di fatto sulla capacità di un individuo di generare e gestire grafi più o meno complessi di questo tipo:
L’intelligenza è la capacità di sviluppare e gestire schemi relazionali.
Dr. Dario de Judicibus, 18 novembre 2004
Come si può vedere, questa definizione non entra in merito se i vari nodi siano stimoli o ricordi, abbiano a che vedere con l’ambiente esterno o rimangano racchiusi in qualche elucubrazione mentale, se riguardino un complesso meccanismo meccanico o siano legati alla produzione di una melodia musicale. La focalizzazione infatti non è tanto sui nodi, quanto sulle correlazioni e quindi sulla complessità e dimensioni del grafo equivalente.
La cosa interessante è che indipendentemente a che cosa un grafo rappresenti, è sempre possibile definire una metrica relativa alla complessità dello stesso. Ad esempio, esiste un interessante articolo di David L. Neel sulla complessità lineare di un grafo. È solo un esempio, ma rende l’idea. Ovviamente, nel nostro caso, potremmo voler introdurre una misura che tenga conto anche del peso delle varie correlazioni e, in seconda battuta, dei vari nodi, anche se in prima approssimazione li avevamo ignorati.
Per quanto riguarda invece la velocità di acquisizione delle informazioni e di reazione agli stimoli, così come alla capacità di generare o riportare alla memoria ulteriori informazioni, quando inizialmente sviluppai questa definizione, nel novembre del 2004, e ne accennai in un breve articolo su questo blog, ne trassi anche il seguente corollario:
Quanto più ampi e complessi sono gli schemi che si sviluppano e si gestiscono
e quanto più velocemente questo avviene, tanto più intelligenti si è.Dr. Dario de Judicibus, 18 novembre 2004
Oggi ritengo che tale affermazione possa essere vera per quello che riguarda la prima parte, ma non sono più sicuro che lo sia per la seconda, anche se la velocità nel reagire, nel decidere, nel capire, nell’elaborare e nel risolvere un problema spesso è associata a una maggiore intelligenza. Esistono infatti individui estremamente intelligenti che hanno bisogno di rimuginare molto le informazioni prima di arrivare a una conclusione, ma spesso raggiungono conclusioni che altri individui, sebbene più rapidi, non riescono neppure ad immaginare. Quindi la velocità è un fattore sicuramente utile dal punto di vista pratico, ma non è detto che debba essere utilizzato nella definizione di intelligenza.
È pur vero che a parità di problema o di situazione, se due individui arrivano allo stesso risultato in tempi diversi, si è tentati di attribuire al più rapido una maggiore intelligenza. Quando tuttavia mi sono posto il problema di definire cosa fosse l’intelligenza, oltre alla ricerca di una definizione semplice, misurabile e utile, mi ero implicitamente posto l’obiettivo di trovarne una applicabile a tutti i casi. Questo vuol dire che, al contrario di quanto si sia fatto fino ad oggi, tale definizione dovrebbe permettere di confrontare l’intelligenza di uno scienziato con quella di un artista, di un atleta o di un letterato. Dato che questi individui affrontano problematiche molto diverse fra loro e hanno necessità differenti in termini di reattività, ho deciso di scorporare la velocità dalla definizione di intelligenza o da qualsivoglia suo corollario.
Questo tuttavia non vuol dire non tenerne conto, per cui ho sviluppato una seconda definizione:
La tassaginiosi è la velocità nello sviluppare e gestire schemi relazionali.
Dr. Dario de Judicibus, 7 ottobre 2012
Il termine qui usato è un neologismo da me inventato seguendo lo stesso schema etimologico del termine intelligenza. Secondo alcuni dizionari etimologici, questa trae origine dai termini latini intĕr (fra) e legĕre (raccogliere, scegliere, leggere) [1]. Quindi l’intelligenza è la capacità di legare, raccogliere insieme e di conseguenza “formare concetti”.
All’inizio ho pensato di unire celeritĕr (velocemente) e legĕre, ma il risultato non era particolarmente piacevole come suono, per cui mi sono rivolto al greco antico: in questa lingua ἀναγιγνώσκω vuol dire “conoscere a fondo” oppure “leggere”, mentre “velocemente” si può tradurre τάχα. Da qui tassaginiosi.
Consideriamo un atleta: quando valuta il salto che deve effettuare, si prende il tempo necessario; poi, una volta partito, deve agire in modo estremamente rapido valutando eventuali modifiche al movimento inizialmente visualizzato in funzione di quei fattori che non ha potuto valutare a priori. La tassaginiosi quindi è fondamentale nell’esecuzione mentre svolge un ruolo limitato nella fase preparatoria, anche se ovviamente un atleta non può certo stare ore a pensare prima di effettuare un salto. La tassaginiosi può svolgere un ruolo importante anche nelle attività artistiche là dove l’artista crea “di getto”.
In effetti, quello che spesso succede quando si affronta un problema, è che l’intelligenza ci permette di costruire il nostro grafo selezionando, accorpando e anche generando sempre più nodi e correlazioni, mentre la tassaginiosi entra in gioco in determinati momenti a velocizzare il processo. C’è chi riesce a imprimere velocità a tutta la costruzione e chi invece procede a scatti, magari più lentamente all’inizio e poi sempre più velocemente man mano che lo schema si compone. Queste due facoltà, utilizzate insieme, sono alla base della capacità dell’uomo di affrontare i problemi che gli si pongono davanti e quindi di portare a termine tutti quei compiti che abbiamo visto descrivere nelle varie definizioni di intelligenza esaminate in precedenza.
Rimane aperta una domanda: se un certo individuo ha una buona intelligenza e un certo livello di tassaginiosi, perché in genere riesce a utilizzarla molto bene in certi ambiti e si trova in difficoltà a sfruttarla in altri? Si possono identificare due cause, che possono agire indipendentemente o sommarsi.
La prima causa è abbastanza ovvia. Abbiamo detto che l’intelligenza è la capacità di sviluppare relazioni di qualsivoglia natura, fra un insieme di stimoli e informazioni provenienti da svariate fonti. Abbiamo quindi concentrato la nostra attenzione sulle relazioni, piuttosto che sui nodi. Quest’ultimi, tuttavia, svolgono un ruolo importante soprattutto per quello che riguarda gli elementi interni. Se devo affrontare un problema e non ho le nozioni per farlo, potrò essere anche intelligente, ma sarà ben difficile che ci riesca. Qualcosa potrò generare con il ragionamento, ma lacune di una certa entità non possono essere sempre colmate con la logica a partire da altre nozioni. Analogamente, se non ho allenato il corpo o le mani ad effettuare determinati movimenti, il mio cervello non avrà le capacità di applicare determinate abilità psicomotorie quando necessario. Il genio che non ha mai montato neanche una macchinina non riuscirà certo a montare un meccanismo complesso solo grazie alla sua intelligenza. Magari capirà immediatamente come va montato, ma non è detto che ci riesca.
La seconda causa è meno ovvia ma altrettanto importante e spiega perché certi individui, per quanto intelligenti e anche motivati, non riescano a superare i loro limiti in particolari ambiti indipendentemente da quanto si impegnino. Abbiamo parlato di correlazioni e probabilmente la maggior parte di voi avrà pensato a qualche collegamento logico, razionale, ma esiste una famiglia di relazioni che con la logica non ha nulla a che vedere: sono le relazioni emotive. La scelta di un colore, il senso dell’estetica, la creatività artistica, attendono tutte a schemi mentali in cui un numero elevato se non prevalente di correlazioni fra i vari elementi è di tipo emotivo e non razionale.
Questo tipo di relazione ha una caratteristica peculiare che le relazioni razionali non hanno. Una relazione logica può mettere in connessione due nodi in modo positivo o negativo, ovvero posso dire che A ha una qualche relazione con B oppure che A non ha una qualche relazione con B. Una mancanza di relazione quindi, per assurdo, è una relazione essa stessa e usiamo spesso questo tipo di relazioni negative nei ragionamenti. Un esempio è il Rasoio di Occam. Nel caso delle relazioni emotive tuttavia, mentre la relazione positiva tende a unire fra loro i nodi, quella negativa li allontana, ovvero tende a escluderli. Non è un’esclusione logica ma una vera e propria espulsione dallo schema che impedisce al cervello di correlare quel nodo ad altri. Di fatto si tratta di un vero e proprio meccanismo di rifiuto. Ed è proprio tale rifiuto che impedisce di completare lo schema.
In pratica, alcune persone non riescono a utilizzare la loro intelligenza in determinati ambiti perché rifiutano una parte di quegli elementi che sono funzionali a completare gli schemi corrispondenti. In sostanza ci sono aspetti che rifiutiamo magari perché ci riportano alla luce ricordi dolorosi, eventi rimossi, traumi, o semplicemente perché i condizionamenti culturali impressi da piccoli li hanno trasformati in tabù. Spesso tutto ciò succede a livello inconscio per cui anche se a livello cognitivo desideriamo raggiungere un certo obiettivo, a livello inconscio non siamo disposti ad affrontare tutto ciò che ci serve per arrivarci.
Le connessioni fisiche
Finora abbiamo parlato di schemi mentali, ma il cervello è anche un organo fisico ed è formato da neuroni che si interconnettono fra loro in modo dinamico. Senza queste connessioni nulla di quanto abbiamo detto finora avrebbe senso. Infatti, è evidente che a uno schema relazionale devono corrispondere anche connessioni fisiche fra i singoli neuroni. Non è detto che ogni schema mentale abbia una controparte fisica ben definita in modo biunivoco, ovviamente, ma esiste sicuramente una forte correlazione fra come i neuroni si collegano e quali schemi possiamo o meno realizzare. Alcune relazioni, infatti, come quelle logiche, passano spesso su strade già sperimentate e quindi la connessione è rapida perché di fatto già esiste, altre, come quelle dei movimenti, possono dover essere sviluppate ex-novo se il movimento è inusuale e mai provato in precedenza.
Un esempio classico sono le arti marziali dove, una volta appresa una tecnica, è necessario provarla una quantità innumerevole di volte prima di riuscire a interiorizzarla. Il nostro cervello deve infatti realizzare una serie di connessioni neuronali nuove per apprendere un movimento che non ci è naturale. Spesso capita che dopo aver provato per giorni, di colpo, quasi per magia, quella tecnica ci venga spontanea e da quel momento sapremo applicarla quasi “senza pensarci”, come risposta a una serie di stimoli ben definiti, come un particolare tipo di attacco dell’avversario.
Inoltre il nostro cervello ha aree dedicate a specifiche attività. Esempi classici sono la corteccia visiva e le aree dedicate al linguaggio, come l’area motoria (o di Broca) e quella sensoriale (o di Wernicke) della parola oppure l’area di associazione uditiva. Ne esistono tuttavia moltissime altre e ne vengono scoperte in continuazione di nuove. Ad esempio Xiaoke Chen ha recentemente scoperto quattro aree del cervello dedicate alla recezione dei sapori dolce, salato, amaro e umami.
È quindi evidente che se un certo schema relazionale ha la necessità di coinvolgere alcune aree specializzate e i corrispondenti collegamenti neurali sono danneggiati o hanno una qualche patologia che ne altera il funzionamento, questo avrà un effetto anche sulla nostra capacità di completare quello schema. Ad esempio, chi soffre di afasia, ovvero ha perso la capacità di associare a un certo numero di parole il loro significato, si trova nelle stesse condizioni di un individuo che venisse a trovarsi in un Paese in cui parlano una lingua a lui del tutto sconosciuta.
Ora, immaginate di fare un test d’intelligenza sulla capacità di lettura e scrittura a un valente scrittore americano e di farlo in cinese. A meno che non sappia abbastanza bene quella lingua, lo fallirà in pieno. Mi direte che è alquanto ovvio se non banale! Vero, ma questo vuol anche dire che fare un test d’intelligenza che richiede lo sviluppo di determinati schemi mentali a una persona che ha delle impossibilità oggettive a costruire tali schemi, può portare a un risultato non significativo. Siamo tutti d’accordo che non ha senso fare un test in cinese a qualcuno che non conosce quella lingua, ma ci sono altri limiti che sono molto meno evidenti e che potrebbero influenzare negativamente un test semplicemente perché non ne siamo consapevoli.
Le connessioni fisiche sono quindi importanti. L’apprendimento è uno dei meccanismi usati per sviluppare connessioni di un certo tipo. La lingua cinese si può ovviamente studiare e così la trigonometria. Resta il fatto che ci sono persone che hanno facilità nell’apprendere le lingue e altre che faticano parecchio persino con la propria, così come ci sono persone che hanno capacità di astrazione notevole e altre che hanno bisogno di concretizzare sempre ogni concetto con esempi pratici. A parità di apprendimento e di impegno, infatti, individui differenti ottengono risultati diversi.
Ma se da una parte l’apprendimento aiuta davvero a modificare le strutture neuronali in modo da facilitare lo sviluppo di determinati schemi e dall’altra la capacità di svilupparli e gestirli è il fondamento dell’intelligenza, ne consegue che l’apprendimento non aiuta solo ad aumentare la nostra conoscenza ma influenza di fatto l’intelligenza stessa. In pratica una persona che fin da piccola ha vissuto in un ambiente stimolante e si è impegnata seriamente nello studio non sarà solo più erudita di altri ma anche più intelligente, se la definizione data è corretta. Questo corollario può quindi essere usato come un possibile test di falsificabilità per confutare o confermare la mia definizione.
Conclusioni
Per concludere, definendo l’intelligenza come la capacità di sviluppare e gestire schemi sempre più ampi e complessi di relazioni e la tassaginiosi come la facoltà complementare di far ciò più o meno velocemente, ho cercato di fornire due definizioni operative che spero permettano ai ricercatori di sviluppare test comparativi anche tra espressioni molto differenti di quella che genericamente chiamiamo intelligenza. Ovviamente tutto ciò non è pensato in antitesi né con le definizioni precedenti né tanto meno con la teoria CHC e con quelle che da questa sono state generate, ma piuttosto, a mio avviso, ne è una sintesi e in qualche modo le racchiude e le generalizza. Ritengo quindi di aver raggiunto l’obiettivo che mi ero proposto, anche se sicuramente c’è ancora molto da analizzare sull’argomento. A voi il giudizio.
[1] Altri possibili etimi sono intŭs e legĕre, ovvero “comprendere all’interno”, e in, tel e legĕre, ovvero “comprendere profondamente cose lontane”. Si tratta tuttavia di interpretazioni più discutibili dato che la prima — comunemente adottata — presenza una forzatura nel modo in cui intŭs avrebbe dovuto modificarsi, mentre l’altra presuppone la presenza del prefisso indoeuropeo */tl/, comunissimo nel greco moderno (τηλε) e usato, ad esempio, nelle parole telefono, telepatia, e televisione, ma assai raro in latino.
Dr. Dario de Judicibius,
I really liked this post. I wrote up a little summary and added some thoughts to it. I am by no means an expert, just a graduate student with a strong interest in metacognition. You can check out the post at https://www.robcapo.com/blog/the-definition-of-intelligence/
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