Roma è sempre stata una città cosmopolita nel senso più ampio del termine, un punto di incontro di etnie, culture, persino religioni, nonostante la presenza predominante del Vaticano. Non solo questa città ha sempre accolto persone provenienti da ogni parte del mondo ben prima che l’Italia si trasformasse da terra di emigranti a porta d’ingresso per i flussi migratori provenienti dal Nordafrica e dall’Asia, ma in essa le genti si sono sempre mescolate senza alcuna logica o schema, in un continuo incontro e scontro di abitudini, modi di pensare e stili di vita. Unica eccezione il Ghetto, voluto da Papa Paolo IV nel 1555, che fino al 1870 e per un breve intervallo durante l’era fascista, ha visto gli ebrei relegati all’interno di confini prestabiliti. Dalla fine della guerra, tuttavia, esso non rappresenta più una sorta di quartiere chiuso, di città nella città, ma piuttosto una parte della storia di Roma, un ulteriore contributo alla multiculturalità della Capitale italiana.
In effetti, persino in quei quartieri più poveri dove, per carenza di fonti di sostegno, si sono concentrati molti immigrati, non c’è una separazione netta fra le varie culture come invece è avvenuto ad esempio in molte città statunitensi, quali New York o San Francisco. Basti pensare a Brooklyn oppure ad Harlem, al Bronx, alle tante Chinatown. Qualcosa sta cambiando anche da noi, tuttavia. C’è una zona di Roma, quella dell’Esquilino, che vede sempre più la predominanza di immigrati di origine cinese, una delle comunità più vaste nella Capitale, dato che conta oltre 20.000 persone. I cinesi stanno conquistandosi il quartiere metro su metro, acquistando case e negozi a peso d’oro. Ormai ci sono strade nelle quali non si vede più una sola insegna, un solo cartello, in italiano: tutto è scritto in cinese.
Ma qual è il problema? Non certo la presenza dei cinesi né il fatto, più che conprensibile, che desiderino vivere vicini. Roma è quasi sempre stata una città aperta e i romani sono sempre stati ospitali con gli stranieri. Il punto è come questo sta avvenendo e perché. Non si tratta di un movimento spontaneo di aggregazione, né di una scelta favorita da un costo della vita, delle abitazioni o dei negozi particolarmente conveniente, e neppure la conseguenza di una qualche forma di emarginazione sociale o discriminazione razzista da parte dei romani, ma piuttosto un vero e proprio progetto inteso a creare una città nella città, una vera e propria Chinatown, come è successo in molte altre metropoli del mondo. E non sono stati i romani a volere questo ma gli stessi cinesi, o meglio quelle organizzazioni che stanno dietro al traffico di carne umana che dalla Cina porta verso il nostro Paese migliaia di individui ogni anno. Organizzazioni che nella comunità cinese controllano tutto, dal commercio alle famiglie, persino possibili relazioni affettive interrazziali. Non sono pochi gli italiani, infatti, che hanno scoperto con sorpresa come venga assolutamente osteggiata qualunque forma di relazione amorosa con cinesi appartenenti alla comunità romana.
Alla base di tutto ciò non ci sono quindi motivazioni culturali o qualche forma più o meno spinta di discriminazione, ma interessi economici e di potere. In molte città americane a Chinatown non entra neanche la polizia dopo una certa ora perché, tutto sommato, non ha alcun interesse ad entrare. La mafia locale ha infatti una tradizione millenaria di controllo della popolazione e sa qual è la chiave della convivenza, se così vogliamo dire: non mescolare i due mondi. All’interno delle Chinatown c’è di tutto: droga, prostituzione, crimini di ogni tipo, esattamente come al di fuori, ma i due mondi non si sovrappongono. I cinesi non vendono la droga fuori da Chinatown, non fanno prostituire ragazze occidentali e i crimini non devono interessare chi abita fuori dal quartiere. Tutto ciò che avviene all’interno della cittadella è cosa loro, e questo in molti casi demotiva le polizie occidentali a occuparsene. All’interno, tutto è sotto il controllo della mafia cinese. Questa almeno è la realtà americana.
E a Roma? Non siamo ancora a quel livello: l’Esquilino è un quartiere aperto, una zona di transito di molte persone, c’è un grande mercato etnico frequentato da etnie di ogni genere e anche da molti romani appassionati di cucina esotica, dato che vi si possono trovare spezie e ingredienti di ogni tipo. Ma per quanto ancora? I cinesi non hanno fretta: è una loro caratteristica. Quando si prefiggono un obiettivo in genere lo raggiungono, che ci voglia un giorno, un mese, un anno o un decennio. La loro è una cultura antica e complessa, molto diversa dalla nostra; inoltre sono abili commercianti e accorti imprenditori. Non saprei dire quando succederà, ma prima o poi l’Esquilino diventerà davvero una Chinatown e allora Roma perderà per sempre la sua caratteristica di città aperta, dove tutte le culture si integrano e si completano a vicenda.
Vediamo di capirci: integrazione non significa accettazione da parte degli altri della nostra cultura. Integrazione vuol dire scambio, vuol dire mescolanza, generazione di nuove idee e nuove abitudini a partire dall’incontro e dall’unione di modi diversi di vedere le cose. L’integrazione ci fa crescere tutti, l’isolamento fa perdere a tutti qualcosa. Se il Ghetto è stata una vergogna imposta dall’esterno alla comunità ebraica, le Chinatown sono una ferita creata dall’interno dalle comunità cinesi, un autoisolamento che non nasce dal bisogno di proteggersi, ma dalla volontà di creare un nucleo di potere autonomo e completamente scollegato dalla realtà che le circonda, anche e soprattutto dal punto di vista delle regole sociali e delle leggi.
La comunità cinese può essere una grande risorsa per Roma, ma se lasceremo che pochi individui a capo di organizzazioni dagli scopi dubbi e discutibili la isolino in un nuovo Ghetto alla Rovescia, allora creeremo nella Capitale un cancro che non sarà più possibile estirpare e Roma, da ombelico del mondo, finirà per diventare l’ennesima metropoli formata da realtà contrapposte e in conflitto che non si parlano e non si comprendono.
E questo, a mio avviso, non lo si deve accettare.
Secondo la scala di Kardashev la nostra è una società di tipo 0,7.
Questo, per gli ottimisti, è il momento migliore di vivere, perché potremmo essere testimoni nell’arco della nostra vita del passaggio a civiltà di tipo I.
Io che pure non mi reputo pessimista, credo invece che siamo destinati al fallimento. I segnali ci sono, e in fin dei conti se catastrofe deve essere, almeno che sia rapida e devastante…
La scala di Kardashev riguarda il livello di civilizzazione tecnologico. In realtà non è quello il problema, o piuttosto il problema è il divario fra la crescita tecnologica e la maturità a livello sociale. In quest’ultimo campo siamo ancora molto primitivi. Siamo come un bambino di pochi anni con una pistola in una mano, un telecomando nell’altra, e un cellulare in tasca: pericolosi.
Ma ciao…
ed ora “ci si trova” anche via blog…! 😉
Piuttosto interessante il tuo!